Con il progressivo allentarsi delle restrizioni, l’attività economica è ripresa quasi ovunque in Europa, con essa è ripartita anche l’inflazione. L’aumento del tasso di inflazione non è necessariamente un problema. A lungo le banche centrali, soprattutto quella europea, hanno lottato per contrastare la tendenza alla deflazione, una situazione di domanda debole, di crescita insufficiente a garantire il pieno impiego e a generare investimenti e progresso tecnico.

Tuttavia, l’inflazione ha fatto un balzo in avanti abbastanza spettacolare negli scorsi mesi. Negli Stati Uniti è arrivata al 5 per cento, mentre nell’eurozona ha raggiunto per la prima volta dal 2018 il 2 per cento, l’obiettivo della Bce.

Keep calm and carry on

Le banche centrali hanno reagito con un certo distacco alla fiammata inflazionistica. Il presidente della Fed americana Jay Powell e quella della Bce Christine Lagarde hanno dichiarato che pur essendo vigilanti non ritenevano che politica monetaria e di bilancio dovessero ritirare il loro sostegno all’economia a breve termine. Insomma, i presidenti delle due banche centrali, come l’Ocse e il Fmi ritengono che oggi il rischio maggiore sia che si dimentichi la lezione del 2010 e si ritiri prematuramente il sostegno all’economia, facendola ripiombare nella recessione.

Dopo un iniziale momento di panico, che ha visto i tassi di interesse a lungo termine risalire, i mercati sembrano essersi allineati alla convinzione che la fiammata inflazionistica sia temporanea e le aspettative di inflazione a medio termine sono rapidamente tornate ai livelli dell’inizio dell’anno.

Anche la notizia di giovedì scorso che a fronte di una ripresa più robusta del previsto la Fed ha anticipato al 2023 l’inizio della risalita dei tassi, ha fatto molto più rumore nelle redazioni dei giornali finanziari che sui mercati.

Perché l’inflazione più alta sarebbe rischiosa?

Perché un tasso d’inflazione strutturalmente elevato sarebbe una cattiva notizia? Ricordiamo che il debito pubblico dei paesi avanzati nel 2020 è aumentato in media di venti punti di Pil e che continuerà ad aumentare. L’aumento del debito è la conseguenza del colossale sforzo dei governi per sostenere l’economia, sforzo peraltro coronato da successo, nonostante la crisi e il calo dei redditi: non osiamo nemmeno immaginare quale sarebbe la condizione del nostro tessuto produttivo e di quanto sarebbe aumentata la povertà se tale sostegno non fosse esistito. Anche il debito privato è tornato a livelli simili a quelli del 2007, quando innescò la crisi finanziaria globale.

Contrariamente a quanto ritengono gli alfieri dell’austerità che ultimamente hanno rialzato la testa, livelli elevati di debito non significano necessariamente insostenibilità. Da un lato la crisi ha creato un’enorme massa di risparmi in cerca di collocazione; dall’altro lato le banche centrali tengono il costo del credito vicino allo zero e con gli acquisti di titoli contribuiscono alla domanda globale di debito pubblico; quindi fin tanto che gli interessi restano bassi il debito rimane sostenibile.

Una spirale inflazionistica metterebbe le banche centrali di fronte ad un dilemma insolubile. Combattere l’inflazione rendendo il denaro più caro (e il debito difficile da onorare), soffocando la ripresa sul nascere e creando problemi di sostenibilità per molti paesi tra cui il nostro? Oppure continuare a proteggere le spalle dei governi lasciando i tassi immutati, con il rischio di vedere un aumento della volatilità di Pil e prezzi e in ultima istanza, anche in questo caso, un aumento del rischio di instabilità finanziaria?

Una fiammata temporanea

Come si spiega allora la calma olimpica di Powell e Lagarde? Con la convinzione che la fiammata inflazionistica sia contingente e addirittura per certi versi benvenuta. In effetti, nei primi mesi di quest’anno lo strappo con cui è ripartita l’economia ha amplificato alcune distorsioni che con il tempo saranno riassorbite.

Dal lato della domanda, la fiducia è tornata (grazie alla campagna di vaccinazione, la fine del tunnel sembra veramente in vista) e una parte dell’enorme massa di risparmi accumulata nel 2020 (in parte forzata e in parte precauzionale) si è riversata sui mercati sotto forma di domanda per consumi o investimenti. A questo si aggiungono i piani di rilancio che continuano a stimolare la domanda.

L’offerta però ha faticato a seguire la domanda. Intanto, nonostante gli aiuti pubblici, ci sono stati fallimenti e distruzione di capacità produttiva. Poi, anche per le imprese e i settori in cui l’attività è proseguita, la pandemia ha disarticolato il processo produttivo. Le inchieste mostrano che le catene di approvvigionamento delle imprese si sono deteriorate con la crisi e devono essere ricostituite quando non reinventate.

Inoltre, la pandemia ha creato nuovi bisogni (ad esempio legati allo smart working) cui l’offerta si sta adeguando con difficoltà; si pensi al settore dei semiconduttori per il quale la produzione non riesce ad adeguarsi rapidamente all’esplosione della domanda. Queste distorsioni hanno avuto un impatto sui mercati dell’energia e delle materie prime, i cui aumenti di prezzo hanno a loro volta contribuito ad inflazione e colli di bottiglia settoriali.

Il vero rischio è la stagnazione secolare

Insomma, siamo ancora ben lontani dall’oliato funzionamento dei mercati precedente alla pandemia. Tuttavia, non c’è ragione per credere che queste distorsioni portino ad un aumento permanente dell’inflazione.

È certo che l’organizzazione dei processi produttivi e la distribuzione settoriale dell’attività che emergeranno alla fine saranno alquanto diversi da quelli cui siamo abituati. Ma nulla ci dice che in questo nuovo mondo ci saranno pressioni inflazionistiche persistenti.

Al contrario, tutte le forze che negli scorsi anni hanno compresso l’inflazione sono destinate a pesare quanto se non più di prima: incertezza macroeconomica e geopolitica, invecchiamento della popolazione, disuguaglianza crescente e compressione dei salari, precarietà sui mercati del lavoro, peso crescente del debito (pubblico e privato), rallentamento di progresso tecnico e innovazione.

Tutto questo ha spinto in passato, e spingerà in futuro, a un aumento dei tassi di risparmio, a investimento stagnante, tassi di interesse in calo, in sintesi a quella che è stata definita “stagnazione secolare”.

Il sangue freddo di Fed e Bce potrebbe essere il segno della loro capacità di guardare oltre il caos di questi mesi e di rimanere concentrati sulle vere sfide dei prossimi anni. Sfide per le quali, peraltro, la cooperazione con i governi e con le politiche di bilancio sarà fondamentale. Su questo dovremo essere vigilanti nei prossimi mesi.

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