Il Pd è uscito vincitore dalle elezioni comunali. Ma non per i consensi ottenuti dalle sue liste: rispetto al passato non si sono mossi più di tanto. Il Pd ha vinto perché ha guidato un “campo largo”, come i suoi dirigenti amano dire. Nel 2016, sulla spinta del 40 per cento alle europee di due anni prima, pensava di poter fare tutto da solo, e si è bruciato le ali. In questa circostanza, invece, ha patrocinato alleanze, aggregando di volta in volta il M5s ed altri piccoli partiti. Il Pd ha agito da magnete: ha attratto componenti che si riconoscono nel centro-sinistra, pur mantenendo le loro specificità. Questo merito va riconosciuto e il segretario Enrico Letta, che si è speso in questa opera, si è di certo rafforzato.

Rimangono due problemi aperti. Il primo riguarda la competizione con il centro-destra. Nei 118 comuni sopra 15.000 abitanti la coalizione guidata dal Pd ora governa 53 città con un guadagno di 18 sindaci. Ma il centro-destra ne ha perse solo due. Questo significa che il successo del centro-sinistra è avvenuto a spese di sindaci eletti dal M5s e da coalizioni di vario genere.

Al di là dei numeri, il sistema mediatico ha sentenziato la sconfitta del centro-destra. E questo è stato immediatamente registrato nei palazzi del potere, tant’è che si è fermata la corsa ad accreditarsi alla corte dei leader di quello schieramento. Ma la partita è aperta.

Perché rimane il secondo problema: la reale forza di attrazione del centro-sinistra. Tutto dipende dalla capacità di convincere quei milioni di elettori che non si sono presentati alle urne. Chi riuscirà a portarli al voto dalla propria parte vincerà la sfida. E qui sorgono le perplessità su una strada in discesa del centro-sinistra.

Dai primi dati, gli astensionisti sembrano coincidere con i sostenitori del M5s nel 2016-18, e della Lega nel 2019. Un segmento di elettorato fluttuante che si mobilita su temi chiari, semplici ed emotivamente coinvolgenti, che nemmeno sa cosa sia il Pnrr e la Next generation Eu, che non si interessa al climate change mentre è angustiato da salari, precarietà del lavoro, trasporti irregolari, caseggiati fatiscenti e micro-criminalità diffusa.

La stima per il presidente del Consiglio Mario Draghi, che circola nella classe dirigente, non va confusa con la disponibilità a votare chi lo sostiene a spada tratta. Esistono aree di scontento silenti, che ora non sono andate al voto per mancanza di imprenditori politici che interpretassero le loro priorità.

Chi offre loro una credibile rappresentanza vincerà le prossime elezioni. Può essere la destra, ricalibratasi dopo la sconfitta, una sinistra che prende di petto quei problemi a rischio di scontentare qualche esponente delle Ztl, o una nuova offerta politica che ora non immaginiamo nemmeno ma che può accendere improvvisi entusiasmi. Lo scenario è aperto a ogni soluzione. Come non era scritta l’inevitabile vittoria della destra, così non lo è quella della sinistra, tutt’altro.

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