Il reddito di cittadinanza è stato ed è tra i provvedimenti sociali ed economici più discussi degli ultimi decenni.

Un dibattito spesso particolarmente viziato dai pregiudizi da una parte e dell’altra e che rende quindi ancor più preziosi i dati che vengono diffusi.

Lo studio dell’Inps di monitoraggio sui primi tre anni dall’introduzione dello strumento, diffuso nei giorni scorsi, è utile per cogliere alcuni aspetti che ancora restano ai margini della discussione pubblica, contribuendo così a generare non pochi errori di prospettiva e incomprensioni.

In particolare grazie ai dati elaborati dall’Inps si è finalmente proceduto a sviluppare una analisi longitudinale dei percorsi lavorativi dei soggetti beneficiari del reddito.

Se prima sapevamo che una quota importante di chi lo percepisce (il 41,8 per cento) era impossibilitata a lavorare per vari motivi (anziani, troppo giovani, disabili ecc.) adesso abbiamo molti elementi di dettaglio in più anche sull’altra fetta, sul quale si sono spesso concentrati i commenti.

Retorica e realtà

Il riferimento è a quel 58,2 per cento di percettori che è teoricamente occupabile. Ed è bene ribadire il “teoricamente”, perché dai dati emergono alcune ombre importanti. Infatti su 100 percettori 14,6 non sono mai stati occupati, 24,9 hanno avuto un lavoro ma prima del 2017 e solo 18,7 hanno lavorato recentemente.

Uno scenario che dovrebbe spingere a una notevole precauzione nel giudicare le performance occupazionali di chi percepisce il reddito. Infatti, dai dati emerge che una certa retorica sul reddito di cittadinanza come strumento direttamente connesso a misure di occupabilità, costruita per rendere accettabile socialmente e politicamente l’approvazione del provvedimento, soprattutto considerata la compagine governativa del periodo, mal si sposa con la realtà dei fatti.

Così come è costruita, la misura va a intercettare una fetta della popolazione che, salvo gli illeciti che periodicamente vengono segnalati, sembra essere particolarmente in difficoltà, non solo a causa di un reddito basso ma anche di una distanza cronica dal mondo del lavoro. Questo porta ad almeno due considerazioni.

La prima è che il secondo pilastro del reddito di cittadinanza, quello legato alle politiche attive del lavoro, non potrà che rimanere marginale e, per la complessità della platea, difficilmente una sfida alla portata dei Centri per l’impiego ma anche lontano dall’interesse delle agenzie per il lavoro.

La seconda è che questi dati mostrano come proprio il tema delle politiche attive debba essere gestito in modo differente a seconda dei casi che si presentano.

Il sostegno alle transizioni lavorative è qualcosa di molto diverso dal sostegno al ritorno (o al primo ingresso dopo anni di disoccupazione o inattività) nel mercato del lavoro a partire da gravi condizioni di disagio economico e sociale.

Flessibilità

La confusione degli strumenti genera quindi risultati deleteri. Da un lato, buona parte del supporto ai beneficiari del reddito di cittadinanza non risponde alle loro caratteristiche e quindi si rivela sostanzialmente inefficiente.

Dall’altro, un certo appiattimento e livellamento al ribasso della pratica delle politiche attive le limita, con risultati pressoché nulli, ad una quota di mercato medio-bassa.

Questi dati contribuiscono a riportare il dibattito alla realtà dei fatti, molto più complessa e variegata e che non richiede soluzioni uniche ma flessibili, declinate a partire dalle singole esigenze, intercettate a livello locale.

Flessibilità che ora sembra molto lontana dall’essere praticata e praticabile.

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