Si è concluso mercoledì a Brighton, nel sud dell’Inghilterra, con il discorso del leader Keir Starmer il congresso del Partito laburista. Quattro giorni di scontri aspri e prevedibili, qualche colpo di scena inaspettato, qualche insulto, il consueto circo di parole e promesse. Un congresso difficile per Starmer, ma che inaspettatamente si è concluso in modo positivo e incoraggiante, almeno secondo la stampa che ha accolto con favore alcuni passaggi del suo discorso, soprattutto su legalità e ordine pubblico. E anche per l’opinione pubblica, almeno la parte rilevata da una serie di sondaggi come quello di Sky news: il 68 per cento è convinto che Starmer davvero si preoccupi per la gente comune e il 62 per cento lo ritiene una persona competente.

Starmer ha incassato la riforma del processo di selezione dei candidati e del leader, che restituisce più potere al partito centrale eliminando la possibilità da parte delle sezioni locali di deselezionare i candidati. Uno degli strumenti di democrazia dal basso introdotti dal leader precedente, ma che di fatto obbliga ogni parlamentare a guardarsi sempre le spalle compiacendo soltanto i militanti più fedeli.

Ora può certamente tirare un sospiro di sollievo. Ma la scommessa di lasciarsi alle spalle le tensioni con la sinistra del partito – leggasi la curva dei tifosi di Jeremy Corbyn – e di proporsi come l’alternativa al post-populismo di Boris Johnson, quella ancora non la ha vinta. E non sembra una partita facile.

Lotta e governo

È stato un congresso delle ‘prime volte’. La prima volta davanti a una platea di delegati in carne e ossa per Starmer; la prima volta delle dimissioni di un membro del governo ombra durante l’assemblea: Andy MacDonald, ministro per il lavoro e ultimo dei corbynisti rimasti nella squadra di Starmer se ne è andato contestando il rifiuto del leader di sostenere la richiesta dei sindacati per l’aumento del salario minimo.

È stato il congresso in cui per la prima volta da parecchio tempo sono volate offese, e non solo fra corbynisti e blairiani: il numero due del partito, il deputy leader Angela Rayners, ha apertamente insultato il primo ministro Johnson e i suoi appellandoli come ‘feccia’. Per ritrovare questi toni bisogna andare indietro agli anni della Thatcher.  Ma è stata anche la prima volta in cui Andy Burnham, sindaco di Manchester ed eroe dello scontro fra le autorità locali e Downing street sulla gestione della pandemia durante i lockdown, ha fatto più selfie con i partecipanti di qualsiasi altro delegato, Corbyn compreso.

Da un certo punto di vista i congressi del Labour sono come una grande festa dell’Unità, di quelle che allestiva il partito comunista negli anni settanta o ottanta, quando già era in profonda crisi ma ancora in grado di esporre in tutto il suo splendore una macchina organizzativa e identitaria invidiata da tutti gli altri partiti.

Se, come ha detto Starmer, il partito laburista è una grande chiesa che ospita molte anime diverse, allora il congresso annuale è una sorta di festa di Natale, dove al folklore si mescola la programmazione politica, agli workshop e ai seminari sulla fiscalità si sommano le pinte di birra, dove a fianco del banchetto di chi si batte per la difesa delle api c’è la postazione promozionale del Sun. Almeno quest’anno è andata così. L’ultima volta che il tabloid di Murdoch era presente è stato durante gli anni blairiani. Quanto questo ritorno sia positivo, lo vedremo.

Il partito noioso    

L’obiettivo di Starmer a Brighton è stato quello di restituire una presunta immagine di ‘eleggibilità’ al Labour, chiudere col passato e archiviare la questione dell’antisemitismo, cioè liberarsi definitivamente di Corbyn che ha portato il partito al peggior risultato dai tempi della crisi del ’29, per tentare di riconquistare i voti persi nel nord del paese e presentarsi come un partito rassicurante, preparato, affidabile. Un po’ noioso, insomma.

Forse è proprio quello di cui il paese avrà bisogno per gestire il caos post-Covid e post-Brexit, ma in questo modo Starmer rischia di svuotare il Labour di energie e idee. La decisione di andare alla guerra con la sinistra, palpabile durante tutta la conferenza e culminata nelle contestazioni al suo discorso, non porterà a una scissione. 

Il sistema elettorale maggioritario è il principale deterrente. Ma a guardare fuori dalla sede della conferenza, dove il gruppo legato al progetto The World Transformed, ovviamente corbynista, sotto un Socialism scritto a caratteri cubitali ha organizzato una sorta di contro-congresso, è altrettanto chiaro quanto la frattura continuerà a creare problemi.

Starmer nel suo discorso ha rivendicato l’origine plurale del Labour, nato da diverse organizzazioni di lavoratori e sindacati, think tank e movimenti di sinistra più o meno libertaria che proprio nella scelta del nome hanno cercato una sintesi: un partito concentrato sulla dignità del lavoro. E poco importa se la parola socialismo sia stata introdotta nello statuto del partito proprio da Tony Blair.

Le contestazioni che hanno più volte interrotto il suo discorso accusandolo di essere una tribute-band di Tony Blair, non se ne andranno presto. Starmer ha risposto mantenendo la calma, opponendo alle urla contro di lui la necessità di scegliere fra slogan e politiche effettive per cambiare la vita della gente. Slogans or changing life: una versione in inglese di ‘piazze piene, urne vuote’. C’è da sperare che a lui porti più fortuna che a Pietro Nenni.

Ritorno al centro

Non vi è dubbio che Starmer ha riportato il partito al centro. La parola chiave è sicurezza: sul lavoro, sicurezza legata alla salute, soprattutto quella mentale, sicurezza in relazione ai cambiamenti climatici contro i quali Starmer ha promesso una rivoluzione verde e un grande piano di investimenti. Ma anche sicurezza nel senso di lotta al crimine e rafforzamento delle forze dell’ordine. E sicurezza come certezza di poter contare su un sistema scolastico efficace e inclusivo.

Non lo avrà mai direttamente citato, ma gli afflati blairiani ci sono tutti. Si tratta di una netta ricusazione del programma radicale di Corbyn? Le promesse di tassare le grandi corporazioni sono rimaste. E anche quelle di non lasciare nessuno indietro. Sul salario minimo, no. Starmer ha deciso di non inimicarsi la piccola e media industria e di non sostenere l’aumento a 15 sterline. La parte su cui nessuno avrà dubbi è certamente l’impegno a investire in istruzione e ricerca. Anche questo, va detto, un tema blairiano.

Forse la vera domanda da porsi è quanto il manifesto corbynista fosse veramente radicale e non soltanto un tradizionale approccio socialdemocratico che nel contesto di un capitalismo fuori controllo appariva molto più rivoluzionario di quello che in realtà prometteva. Ma questo è un altro discorso. Perché per il momento sono di più le cose che Starmer ha in comune con Corbyn, che con Blair: nessuno dei primi due infatti ha mai governato e dimostrato di poter implementare il proprio programma elettorale.

Le elezioni sono ancora lontane, ma non troppo. E se la situazione continua nella direzione che ha preso con la crisi dei rifornimenti di benzina, non va escluso nulla. Starmer ha accuratamente evitato di parlare di Brexit, archiviando anche quella nel passato. Ma molti dei problemi del governo sono legati al dillentattismo con cui è stata affrontata la questione dell’uscita dall’Europa.

Secondo un recente sondaggio di Yougov, il 53 per cento degli intervistati ritiene che la Brexit sia negativa, con un incremento di 12 punti da giugno.

Se il referendum fosse riproposto oggi i risultati sarebbero diversi. Nella storia politica del Regno Unito, New Labour compreso, le elezioni non le si sono vinte, ma sono stati gli altri, quelli al governo, che le hanno perse. Non sarà diverso neanche per la prossima volta. C’è da scommettere che anche in questo caso la Brexit farà la sua parte.   

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