Ci sono due modi di leggere l’omicidio di Civitanova Marche. Il primo: una brutalità incommentabile, che non ha colore né ideologia né tantomeno partito – bianco o nero non importa, la violenza è terribile sempre e comunque, e se nessuno è intervenuto è perché aveva paura, e la paura per quanto spiacevole è un umanissimo fardello, va accettata e capita, siamo tutti fragile cosa, non si può incolpare nessuno di aver avuto paura. Chiameremo questa lettura: l’Ipotesi della natura umana.

Esiste però un’altra ipotesi, secondo cui in questo evento – tanto nella brutale aggressione quanto nell’omissione di soccorso – ci sia qualcosa di sotterraneamente politico. Certo, vedere una matrice oscuramente razzista nella dinamica dell’omicidio di Alika non è un’ipotesi campata in aria da qualche malevolo: la comunità nigeriana di Civitanova ha deciso di manifestare pubblicamente, e se l’ha fatto è perché ha sentito l’episodio come un segnale oscuramente chiaro.

Questo segnale dice: per quanto certi leader politici si ostinino a negarlo, esiste un noi e un loro – e loro sono molto più esposti alla violenza di noi. Razzismo non è più da tempo una militanza ideologica: piuttosto un meccanismo introflesso, un’azione più o meno inconscia di classificazione del reale. Ruth Gilmore scrive: «Il razzismo è l’esposizione di certe popolazioni a una morte prematura».

Esistono vite a cui è riservato un sistema di sostegno, incoraggiamento, protezione; e vite esposte alla morte, alla persecuzione, all’omicidio. Non è questione di poche mele marce. Dietro l’omicidio c’è un meccanismo in atto, e va guardato in faccia.

Preparare le vittime

René Girard ha detto che ogni comunità ha bisogno di capri espiatori, e a questo scopo predispone sempre le sue vittime. Non lo fa apertamente, è ovvio. È un processo implicito e silenzioso: ogni società attua dei meccanismi di esclusione, emarginazione, isolamento di certe categorie. Pochi ne sono coscienti, ma stanno preparando le vittime nel caso in cui venga l’ora del sacrificio.

Su di esse vive un messaggio occulto, come un ultrasuono, udibile a diverse frequenze. Girard li chiama «segni vittimari». Indicano le persone contro cui la violenza può scatenarsi più liberamente che con altre. Vittime su cui vige un tacito, inconfessabile assenso generale. Povertà e pelle scura sono, da anni, alcuni tra i segni vittimari per eccellenza.

Questo processo è in atto nelle società europee, e da diverso tempo: lo è apertamente nella comunicazione di certi partiti, e lo è occultamente nel lassismo con cui altri partiti ignorano deliberatamente certe fondamentali battaglie – dallo ius soli allo ius scholae – abbandonando il campo al linguaggio dei primi. Così quel certo linguaggio resta, di fatto, l’unico linguaggio sul mercato.

Questo processo è in atto nell’omertà con cui certe frange della popolazione vengono lasciate all’emarginazione. Lo è nel disinteresse colpevole in cui certi fenomeni, come lo schiavismo agricolo e sessuale, languiscono nel dibattito pubblico. Il linguaggio è tale anche nelle sue omissioni: e certi silenzi sono messaggi, a volte più forti di quelli verbali.

Questi processi lavorano da anni nella psiche collettiva, e forse hanno una loro parte in un’omissione di soccorso dovuta certo, sì, alla paura, ma anche a un inconscio che segretamente dice: che la violenza scorra; meglio a lui che a me; meglio uno solo che tanti. Non sa di pensarlo. Ma, nondimeno, lo attua.

Scrive Girard: «La violenza di tutti contro tutti finirebbe per annientare la comunità se, nella sua conclusione, non si trasformasse spontaneamente, automaticamente, in un tutti contro uno, che permette al gruppo di ritrovare la propria unità. I meccanismi informatori della ragione non sono accessibili alla folla, che funziona secondo i meccanismi del capro espiatorio».

Chi uccide un uomo in pieno giorno nel corso principale di una città, a meno che non sia completamente pazzo, lo fa anche perché ha avvertito una qualche giustizia ad autorizzarlo. E, nel momento in cui, nel corso di quei terribili quattro minuti, nessuno l’ha neanche distratto dalla sua mattanza, potrebbe aver oscuramente sentito quell’omissione come un segno di tacito consenso. Ferlazzo non ha agito sulla base di un impulso reattivo – il contatto di Alika con la fidanzata è avvenuto ben prima dell’omicidio. Ma lui ha sentito il dovere di tornare indietro, e punire: un onore violato andava riassestato. Ma l’onore è sempre un fatto collettivo, un altro nome – lo ricorda Shakespeare – che si dà alla Reputazione. Direbbe Lacan: un nome del Padre.

Violenza strutturale

Che piaccia o no, Filippo Ferlazzo non è un cane sciolto: dietro di lui c’è una cultura, che oggi ha paura di riconoscerlo come un proprio perverso prodotto, ma che prova comunque a giustificare la propria omertà: umana sì, ma innocente no.

Contrastare l’orrore accaduto a Civitanova non significa esprimere il proprio ennesimo, scontato cordoglio, ma avviare un processo consapevole, che dica finalmente in modo chiaro: questa società è un sistema che, superata da tempo l’èra del benessere, produce (fra le altre cose) una quantità esponenziale di violenza.

Questa violenza inizia a diventare strutturale. Il carnefice e la vittima portano le maschere di un rito tragico che siamo destinati a veder svolgersi ancora.

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