A chi si rammarica che “non si può più dire nulla” bisogna segnalare che non viviamo più in un mondo monocolore, ammesso che sia mai esistito: oggi finalmente ogni minoranza ha la possibilità di esprimersi e l’opportunità di rivendicare un riconoscimento sociale. A sfibrare il dibattito pubblico è semmai la negoziazione permanente sui nuovi codici morali e linguistici che devono reggere la società.

Il problema è che viviamo ormai in una condizione di eccitazione permanente determinata dall’abolizione di tutte le distanze temporali e spaziali: i dispositivi informatici permettono di documentare una quantità crescente di accadimenti e di opinioni, le infrastrutture telematiche danno accesso in ogni momento a un completissimo archivio di documenti riguardo ogni persona viva o morta, e come se non bastasse la struttura dei social network è stata progettata per accelerare la loro circolazione nonché l’interazione (anche conflittuale) tra gli utenti.

Così sorgono nuove comunità, giustamente assetate di riconoscimento, ciascuna con il suo linguaggio, le sue memorie, i suoi traumi, i suoi segni tipografici. Si tratta di una condizione per la quale non eravamo in alcun modo preparati culturalmente: viviamo in un gigantesco panopticon, contemporaneamente tribunale e carcere, nel quale appare talvolta indistinguibile la differenza tra attivismo e cyberbullismo.

A questi dispositivi di disciplinamento reputazionale si sopravvive soltanto assimilando nuove regole di comportamento: ma quali sono? Esse variano di contesto in contesto, e si aggiornano sempre più spesso. Non esistono competenze innate, e di certo non lo è la padronanza dei codici oggi necessari per garantire l’adeguato riconoscimento a ogni minoranza o micro-minoranza sorta dall’intersezione di precedenti minoranze.

Quel che è sicuro è che, di fatto, l’epoca della libertà di espressione assoluta e irresponsabile volge al termine. Prima di convincerci dell’innocuità dei segni e delle parole, per secoli abbiamo censurato e distrutto opere d’arte. Se abbiamo smesso forse è anche perché erano venuti meno i conflitti che laceravano le società dell’epoca.

Ora che sono riemersi attraverso rivendicazioni comunitarie, gli spazi urbani e virtuali sono diventati un terreno permanente di scontro simbolico. Attivisti chiedono a gran voce la rimozione di monumenti dedicati a personaggi controversi o la censura di opere portatrici di messaggi discriminatori, e le grandi multinazionali dell’industria culturale ottemperano per ragioni d’immagine.

Le soluzioni di ieri, applicate all’oggi, appaiono drastiche: ma se fossero le uniche possibili? Certi eccessi possono essere tollerati in nome di una buona causa ma non è facile evitare che la sete di giustizia alimenti una guerra permanente di tutti contro tutti. Negli ultimi tre decenni e più chiaramente con l’ascesa dell’alt-right, la denuncia del politicamente corretto è diventata uno dei temi aggreganti della destra internazionale.

Non si tratta di una reazione dell’intero segmento tradizionalmente dominante — il proverbiale maschio, bianco, eterosessuale — alla perdita del suo “privilegio linguistico”, ma soprattutto di quel suo sotto-segmento frustrato e declassato che, non potendosi riconvertire nel ruolo di “alleato” delle minoranze in seno a qualche burocrazia pubblica o privata, individua nella nuova competenza linguistica-morale richiesta dal mondo contemporaneo un marcatore di status e quindi una causa della sua stessa (relativa) subalternità. Che fare?

La netiquette

Quando internet era ancora giovane ed esistevano a malapena i forum di discussione, gli utenti erano chiamati a rispettare una rigida netiquette, ovvero un codice di comportamento: era già evidente che una tecnologia tanto potente non potesse funzionare senza delle elementari regole di comportamento.

Lo stesso vale a maggior ragione per la società contemporanea, che di fatto è integralmente migrata in quel mondo che un tempo veniva detto virtuale. Come si sopravvive nel panopticon? Facendo tutti un passo indietro: essere più indulgenti con gli altri e meno con sé stessi, pensare alle conseguenze delle cose che facciamo ma non dimenticare le cause di quelle che fanno gli altri.

In una società multiculturale, è necessario accettare che esistano diverse visioni del mondo e codici morali, senza che queste differenze siano continuamente oggetto di polarizzazione e conflitto. Sul piano dei comportamenti individuali, della militanza politica e dell’attività legislativa, soltanto una tolleranza radicale ci salverà.

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