Quando Ludwig Wittgenstein scriveva che «i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo», intendeva enucleare un’intuizione solo in apparenza complicata: tutto quanto noi vediamo, sentiamo, apprendiamo, e persino amiamo e odiamo, dipende in larga parte, se non in tutta, dalle parole di cui facciamo uso.

Il nostro universo percettivo ed emotivo è tanto più sofisticato quanto più ampio il repertorio di termini che si posseggono per pensarlo e darne descrizione: non sapremmo cosa fare di quella convulsa rapsodia di reazioni fisiologiche senza la parola “amore”.

Nei secoli passati, impiegate frontaliere come la filosofia e la letteratura hanno sostenuto lo sforzo umano di procurarsi un mondo meno angusto, benché per vie e con mezzi differenti. Se la letteratura è quella tecnica che per tramite di una finzione ci dà in prestito un linguaggio, la filosofia, assai più anziana e più seriosa della svagata compagna di lavoro, s’è da sempre presa in carico un compito più ingrato: immaginare nuovi termini per dire il mondo, ma con la pretesa di spiegare davvero com’è fatto. Sicché, neppure può godere della licenza di mentire.

Credere cose assurde

Per obbedire a tale vocazione, la filosofia ha sempre ambito mettere in questione le nostre idee più comuni sul mondo e sul suo funzionamento. Insinua così il dubbio clandestino che l’assortimento di idee e credenze con cui amministriamo gli affari quotidiani nasconda gli inganni più insidiosi, perché ci induce a credere cose assurde, come ad esempio che domani il sole sorgerà o che noi si fanno scelte in piena facoltà di decisione.

Ma chi ci dà la certezza che un fatto come il sole che sorge e tramonta si ripeterà finché non morremo e persino dopo? E peggio ancora, chi ci dà la certezza che, quando noi morremo, per gli altri ci sarà un dopo? E come sbrogliare quell’intrico di cause e concause che fanno di ogni scelta apparentemente libera un gesto necessitato, al punto tale che il caffè che bevo ora si ricollega per tragitti insospettati al giorno in cui mia nonna dal suo paese si trasferì a Roma?

Di qui, un carattere della filosofia che sa di allucinatorio e che per molti versi, priva com’è perlopiù dell’eleganza nello stile, la confina nel poco illuminato stambugio dello specialismo, utile solamente a chi nutre una passione perversa per paradossi e rompicapi.

Le teorie spinoziane

Eppure, proprio questo coraggio di mettere a soqquadro le idee più intuitive sulla vita umana e sull’universo – che nel Novecento ahimè è venuta un poco meno – è stata a lungo la risorsa che ha permesso il sedicente progresso delle scienze. Per dare un esempio di quella forza d’un tempo, vorrei brevemente richiamare le figure sfavillanti di Spinoza e Leibniz, che dal lontano XVII secolo hanno segnato come pochi il nostro modernissimo occidente.

Spinoza, chissà perché, ma bontà sua, si era auto-incaricato di renderci la vita meno amara, e mentre per le sue idee ardimentose veniva esposto a insulti e angherie, concepiva la più grande architettura filosofica dell’intera nostra cultura.

Il problema è che, secondo l’intricata mappa spinoziana, per raggiungere la gioia bisogna inerpicarsi per una strada accidentata.

Si parte da Dio, che equivale alla natura, vale a dire l’insieme di tutte le cose che sono esistite ed esisteranno, per capire come noi esseri umani, convinti di essere individui tutti d’un pezzo, si sia abitati da corpi assai più minuti, che agiscono in piena autonomia (si pensi ai batteri del nostro intestino, dalla cui attività dipende molto dalla nostra qualità di vita).

E non solo, perché noi si è a nostra volta pezzi di marchingegni più articolati, proprio come oggi vanno dimostrando gli studi sui sistemi complessi, in cui l’azione all’apparenza isolata di un solo elemento scatena una reazione collettiva; e, per capire quell’azione, bisogna guardare al sistema nella sua interezza quale viluppo di tante azioni tra loro intimamente collegate.

Tutto questo per mostrare il segreto di una vita saggia e felice: bisogna apprendere a unirci con tutto quello che incrementa la nostra capacità di fare cose, proprio come quando, per mangiare bene nelle grandi capitali, ci s’industria a non cadere nelle trappole per turisti.

Ma non basta, perché questa gioia dell’incontro non è mai fine a sé stessa. Piuttosto, deve aiutarci a capire che la macchina dell’universo è così macchinica da esistere solo nel suo complesso e che noi individui umani, gaddiani pidocchi del pensiero, non siamo che suoi tasselli: presi isolatamente, noi esistiamo solo nella nostra immaginazione, che per Spinoza è fonte immancabile di idee inesatte e sofferenze.

La nostra ragione, all’opposto, deve concepirsi un universo senza durata, perché lo scorrere del tempo è un’illusione che si vive dall’ottica della parte, dalle altre parti tormentata e trattenuta entro il suo steccato. Di contro, nell’ottica di Dio, i singoli tasselli insistono tutti assieme, anche quelli che sembrano farsi guerra tra di loro, come il nostro corpo che nel suo stomaco scompone una mela e che un giorno, sotto terra, verrà scomposto dai lombrichi (che poi, si sa, sbucheranno da mele lucentissime).

Una volta compreso questo, il che certo non è poco, l’essere umano vedrà con serafico chiarore che ogni sua azione è necessitata dalla macchina macchinica, unica entità davvero dotata d’esistenza piena, e potrà così risalire alla causa vera di tutto quanto gli accade. Nel diletto del panteismo, persino l’individuo che soffre potrà intravvedere nel dolore e nella morte quello splendido marchingegno che pure ci fa, per quel che dura, felici e vivi.

Le relazioni di Leibniz

Recalcitrante ammiratore di Spinoza, Leibniz aveva lo stesso coraggio di mandare in quiescenza le idee che a noi sembrano più irrinunciabili e sicure. Non aveva alcuna pazienza per il tempo e lo spazio per come immaginati da Isaac Newton, celebrato deuteragonista in terra inglese, che li pensava come assoluti, esistenti per loro conto: enormi ricettacoli, in cui si verificano gli eventi secondo linee sequenziali fatte di prima e di poi, in modo tale da assicurare un passato, un presente e un futuro. Un’idea tanto naïf, secondo Leibniz, andava rimpiazzata dal modello ben più probante delle relazioni virtuali: spazio e tempo sono analoghi, più che a un albero radici e fusto, a un albero genealogico. A differenza della relazione tra una quercia e le sue foglie, un albero genealogico esiste solo come sistema astratto di relazioni tra genitori, figli, fratelli, sorelle, zii: tutti noi si è qualcosa nei confronti di qualcunə, senza posizioni assolute, ma solo determinate dalla posizione di colei o colui cui ci poniamo in relazione.

Questi sono il prima e il poi che esistono nell’universo: non sequenze, ma relazioni che si vedono come prima e come poi da certi punti di vista e non da altri. Del pari, lo spazio come luogo in cui accadono le cose è la più disonesta delle finzioni. All’opposto, è quella cosa immaginaria, mai esistente di per sé, che si dà tra corpi in movimento e che in relazione a questo costantemente muta. Addio, quindi, a nozioni che ci paiono tanto ovvie e necessarie: l’intero universo non è che un sistema di forze e relazioni.

Un invito

Questo giro un po’ frenetico tra orizzonti del pensiero che oscillano tra il fantastico e il delirante vuol essere un invito: ridestare nella filosofia di oggi, troppo intenta a stilare glosse sull’esistente, la capacità di sfidare i limiti del nostro mondo. Se quelle teorie, che sembrano miracolose frodi, ancora oggi offrono interi cataloghi di verità da approfondire, è perché avevano il coraggio di flettere i limiti del credibile e di sfidarli con sistematiche provocazioni.

Forse proprio quest’attività di estensione dei confini del pensabile, pur con il rischio permanente di cadere in deliqui mistici, è quanto si chiede a una filosofia che sappia dialogare con le scienze più avanzate: fornire un linguaggio che sveli l’assurdità di certe fanfaluche mascherate da verità palesi, come l’idea che l’individuo esista come entità tutta d’un pezzo, e non sia invece un volatile insieme di relazioni, o che il tempo sia una serie ordinata di eventi in sequenza. E se pure non ne usciremo più felici, perlomeno ci saremo divertitə.

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