Quando si conoscono le origini, gli epiloghi si mostrano sotto un’altra forma. E, pur senza svelare nuove verità, la verità stessa assume un nuovo aspetto. È stato assecondando questa semplice considerazione che, molti anni fa, nell’avvicinarmi incautamente al caso Moro, dal suo immenso groviglio ho provato a prelevare un solo filo – non esaustivo e non assoluto – seguendolo da un capo all’altro, non tanto per arrivare a nuove verità, quanto per ricercare in eventi originari (e nelle conseguenze da essi derivate) una parte dei significati del suo epilogo.

Questo aveva una coordinata esatta. Lo spazio era quello di una strada romana secondaria, via Michelangelo Caetani, il tempo quello di un giorno di primavera, il 9 maggio. L’anno era il 1978, forse il più angoscioso patito dal nostro Paese, con i suoi due presidenti, i tre papi, la Sinfonia d’autunno di Bergman, Il cacciatore di Cimino, i tormenti di Goldrake, le lacrime di Heidi e i mondiali di calcio più drammatici di sempre.

Quella macchina

Nell’incrocio delle due bisettrici c’era un’auto, ferma, e dentro questa un uomo, morto. “Lei” era la più venduta di Francia, lui il più importante d’Italia. Se le cause di questa unità spazio temporale erano note, le origini nella mia testa si presentavano più oscure. Nella ricerca delle cause, semplificando, l’epicentro dell’attenzione si è sempre, correttamente, concentrato sulla dicotomia (destinata ogni volta a espandersi) creata dai due elementi cardine di questa tragedia: la vittima, l’uomo nell’auto, e i carnefici, gli uomini che lo hanno ucciso, caricato, trasportato e lasciato nell’auto.

Ma se esisteva anche l’auto gli elementi sui quali iniziare a ragionare potevano essere almeno tre: le BR, Moro e la Renault. Lo sfondo, poi, suggeriva un punto di partenza, Parigi, da dove proveniva l’auto, e uno di arrivo, Roma, dove quella andava a terminare il suo viaggio.

Follow the car

Il mio è partito da un presentimento che si è fatto ossessione. La lunga immersione tra le carte, infatti, mi aveva convinto che questa era (anche) una storia di auto. Anzi, di strade, garage, pneumatici e benzina. Perché, se ci pensiamo, quella delle BR è proprio una vicenda di macchine. Tutto avviene su queste. Incontri, rapimenti, inseguimenti, posti di blocco. Le auto ci sono sempre. Il primo confronto tra il “pariolino” Morucci, in Mini, e il “proletario” Moretti, in Fiat, è un incontro tra auto e mondi diversi. In auto nasce il nome Brigate Rosse.

Queste iniziano incendiando auto. Dentro le auto effettuano i primi sequestri lampo. Ne rubano poi in quantità. Nelle auto uccidono uomini. In auto Curcio e Franceschini vengono arrestati. Via Fani ne diventa l’apoteosi, sono auto contro auto, e con un’auto parcheggiata finisce la storia. Questa, quindi, possiamo seguirla e capirla rincorrendo non i flussi di denaro ma le auto (“Follow that car!”, dunque).

Se spostiamo lo sguardo sui confini di questa vicenda, uno dei filoni che confluì nelle BR fu quello legato agli operai. Gran parte di loro lavorava nelle industrie automobilistiche. Quando queste protestavano avevano come riferimento quel che accadeva in Francia. E qui la fabbrica che guidava le altre era la Renault. Da lì era uscita la R4.

Certi fili

BR, operai, fabbriche, auto, Billancourt, Renault, R4. Appurato questo, ho capito poi che per raggiungere via Caetani era allora necessario intraprendere il viaggio dal principio, perché la distanza, come sempre, è fatta dalla somma dei passi percorsi. E tornare alle origini, in questa storia, significava iniziare dagli albori di un’epopea, quella automobilistica.

Quel mondo nasce proprio con Louis Renault ed è nei postumi del suo futuro sognato che si posa la drammatica coda di questa storia (ecco l’arco esplorato). Le idee francesi scavalcano poi l’oceano per trasmigrare nella testa di un altro uomo, Henry Ford, che con i pezzi smontati di una Renault tra le mani, cerca il modo di andare nella direzione opposta: creare l’auto per tutti. Ci riesce grazie a un metodo che ruba, ribaltandolo, dai mattatoi. Anziché smembrare la carne, assembla i pezzi. È la catena di montaggio.

La nuova idea fa il percorso a ritroso. Citroën la adotta e Renault ne è sedotto, ma resiste: nella sua testa l’auto è ancora un lusso elitario. Sono gli eventi privati e pubblici che cambiano il corso della sua vita (e della storia). Le perdite familiari gli trasmettono una gestione spasmodica del tempo. La guerra, invece, gli impone ciò che ha sempre allontanato: la produzione in serie. Così diventa come tutti gli uomini di questa vicenda: Citroën, Ford e persino Hitler (costruttore improprio in quanto committente del “Kafer”, il maggiolino).

Tutti loro sono collegati: Ford è ispirato da Renault, Renault è in competizione con Citroën, Citroën segue i dettami di Ford, Ford è idolatrato da Hitler (al punto da avere il suo ritratto nello studio) e Hitler incontrerà Renault tre volte, convincendolo a creare una macchina popolare. Tutti loro, dunque, inseguiranno il miraggio dell’auto del popolo. Questo è basato su un parametro aureo regolato dal rapporto tra il prezzo della macchina e il salario annuo degli operai che l’hanno creata. L’industria automobilistica potrà raggiungere il punto di decollo solo quando al primo corrisponderà il secondo.

La matrice francese

La fabbrica di Billancourt coglie la circostanza con la Renault 4, risultato di una riduzione di costi e di un aumento di salari. È da quel momento che l’operaio-massa crea un mezzo-di-massa, accessibile, dunque, anche a lui. Ma è un beffardo paradosso. Perché, proprio quando il prodotto del suo lavoro è diventato finalmente sostenibile, il suo lavoro, causa le evoluzioni della catena di montaggio, si è fatto ormai insostenibile. Ormai automi intercambiabili, gli operai iniziano così a spostare le loro mire sulla condizione sociale. È in questo modo che, gradualmente, si avvicinano a uno snodo cruciale che si porta dietro tutta la storia passata per edificare quella futura.

Le lotte di Billancourt diventano un simbolo. La Renault è la roccaforte operaia dell’intero paese. Qui, nel corso del tempo, la coscienza è maturata più che altrove. Tra le sue mura hanno lavorato il leader cinese Deng Xiaoping, il fotografo Robert Doisneau, la filosofa Simone Weil, il cantautore Georges Brassens e persino Gusztáv Sebes, l’allenatore della Grande Ungheria.

All’indomani del Sessantotto, nel luogo dove è in produzione la R4, un gruppo di operai della Renault, appartenenti a un'organizzazione appena nata, la Gauche Proletarienne, si incontra più volte con una giovane compagine italiana che ancora non è nulla.

È un contatto apparentemente trascurabile eppure di capitale importanza. Dopo questi incontri, infatti, i secondi dai primi prendono nomi, tecniche, parole d’ordine e modalità d’azione che presto inizieranno a replicare, alla lettera, portandoli a diventare le Brigate Rosse.

Leggendo i documenti il ricalco non solo è evidente ma è continuamente dichiarato: le BR pubblicano gli articoli della GP sulle loro testate e queste, non a caso, si chiamano, appunto, Sinistra Proletaria (traduzione di GP) o Nuova Resistenza (traduzione della compagine armata della GP, la Nouvelle Résistance, etc.). Insomma, le neonate BR diventano il clone italiano degli omologhi francesi.

Quella R4 in lavorazione sotto i loro occhi, poi, scende a Roma (grazie a una società milanese che si trova nella stessa strada in cui abita la famiglia di Mario Moretti, l’uomo che la guiderà) e viene poco dopo acquistata da Filippo Bartoli, che il caso vuole sia un asfaltista (è proprio lui l’uomo che fa le strade di questa storia regalandoci poi un colpo di scena nel finale).

Quell’auto nuova e quei nuovi pensieri, quindi, escono entrambi da Billancourt e arrivano in Italia percorrendo il medesimo tragitto nello stesso tempo. Quando auto e uomini si incontreranno quei giovani avranno ormai annegato la propria umanità nell’ideologia divenendo loro stessi macchine. E alla fine di questo viaggio gli attori della coordinata iniziale non saranno (più) solo BR > Moro (la causa) ma Renault > BR > Moro (l’origine).

Senza che ci fosse un disegno quell’auto li aveva legati fin dal principio.


Il libro

Segnalato allo Strega. Dalla fabbrica parigina di Billancourt alla tragedia di via Caetani. Piero Trellini, già autore del felice La partita. Il romanzo di Italia-Brasile, ripete lo stesso schema narrativo per incrociare la storia dell’auto più venduta di Francia alle vicende drammatiche delle Br e dell’omicidio di Aldo Moro.

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