Alle nostre spalle una tavolata di sei persone festeggia un compleanno in famiglia. «Un compleanno tra congiunti» è il mio primo pensiero, perché tra le varie cose una pandemia ti cambia anche le parole. Mi trovo con alcune amiche strette e vaccinate, i green pass sono sottoposti a regolare controllo, l’ambiente è sanificato e i clienti pochi. Mi rendo conto che non so di preciso da quanti mesi non ci sediamo insieme in un ristorante al chiuso. La famiglia di cui sopra produce i suoni della contentezza e non vedo chi sia il soggetto festeggiato. A un certo punto, però, il cameriere arriva con una gran torta sormontata da due candeline che formano la cifra 85. «Tanti auguri a te, nonno», cantano loro e, a questo punto, cantiamo anche noi. In quell’85 c’è qualcosa che ci infila uno spillo nel cuore e che non cogliamo subito.

Il diciotto marzo era la Giornata nazionale in memoria delle vittime di coronavirus ed era circa nove mesi fa. Sembra tanto? Sembra poco? Tra le molte cose che non sono tornate come prima forse c’è anche la percezione del tempo. A volte pare troppo veloce, altre troppo lento, più spesso pare semplicemente contratto in una sorta di attesa. A marzo scorso le vittime avevano raggiunto la quota di 130mila, nove mesi dopo ce ne sono 5mila in più. In tutto il mondo i morti hanno superato i cinque milioni.

Contagi e decessi sono nettamente rallentati grazie ai vaccini e alle norme sanitarie di base che abbiamo imparato (o che dovremmo aver imparato) a integrare nelle nostre vite. È però proprio di questi giorni la notizia che i numeri sembrano tornare a salire, il 15 dicembre sono stati comunicati 120 morti in 24 ore, mai così tanti dal primo aprile.

I numeri crescenti da un lato seminano il germe dell’inquietudine, dall’altro non coinvolgono più come prima perché, nell’attesa del ritorno alla normalità, forse inizia a farsi chiaro che qualsiasi cosa può diventare normalità. Parafrasando il Kurt Vonnegut di Mattatoio n.5 «so it goes» (così è la vita), ma lo abbiamo davvero accettato? Abbiamo davvero introiettato il messaggio che così è la vita? Per assimilare nel modo più sano possibile l’enormità che questa pandemia rappresenta dovremmo, tra le varie cose, ricordarci di non dimenticare i morti. Tuttavia, mentre i No-vax manifestano al Circo Massimo armati di pigne e scarso buon senso, delle vittime in quanto persone e non numeri, già non si parla più.

Nove mesi fa ancora soppesavamo l’operato di Mario Draghi attraverso ogni sua singola parola e, nel giorno dell’inaugurazione del Memoriale di Bergamo, i segnali importanti non erano mancati. Si era abdicato al lessico militaresco utilizzato a sproposito per oltre un anno, si era cercato di dare la dignità di una storia a quei morti che avevano finito con l’essere spersonalizzati.

Ma spente le telecamere di quella diretta a che punto possiamo dire di essere, ora, con il processo di elaborazione del lutto collettivo? Siamo a un punto monco, siamo nel mezzo di un percorso che si è interrotto non appena si è intravisto un barlume di opportunità di tornare alla cosiddetta vita di prima.

Come è naturale che sia il discorso pubblico si è spostato su vaccini, green pass e normative che regolano il nostro quotidiano. Ha senso che si parli e si ragioni di “altro”, ma che cosa manca – perché è di fatto sempre mancato – all’appello? Manca il ragionamento sul trauma, quel processo di metabolizzazione che in un mondo evoluto dovrebbe passare anche dalla comunicazione mediatica e che porta all’accettazione della ferita, piuttosto che alla fuga da essa. Se fuggi non medichi e se non medichi non guarisci.

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Parlare di morte

A ottobre 2021 per il Saggiatore è uscito un gioiello a opera di Ines Testoni, Il grande libro della morte. Miti e riti dalla preistoria ai cyborg. Tra i molti temi si affronta quello, caro a chiunque si occupi di death studies, delle cause e delle conseguenze della negazione della mortalità nella società contemporanea: «Dal secondo dopoguerra, l’Occidente ha costruito progressivamente uno scenario capace di eclissare la presenza della morte come evento concreto, per allestirne la rappresentazione all’interno di un immaginario funzionale alla rimozione collettiva».

Il saggio di Testoni si cala nella pratica quotidiana quando evidenzia che, con il dopoguerra, la riflessione sulla morte ha iniziato a diventare progressivamente appannaggio di pochi studiosi: «Tutte le altre forme di evocazione non sono state usate che per produrre catarsi collettive, ovvero per narrazioni fantastiche, che proiettano la condizione mortale in una dimensione lontana dal qui e ora o che addirittura la rendono inverosimile. Ne è certamente stato un esempio emblematico il caso Covid, allorquando pareva che si trattasse di una malattia confinata e confinabile alla Cina. Il sensazionalismo con cui se ne è parlato tra il gennaio e il febbraio del 2020 serviva di più per emozionare tranquillizzando piuttosto che per allertare la popolazione affinché la classe politica prendesse per tempo le contromisure necessarie».

Il punto focale di queste righe potrebbe stare in quel facilmente mistificabile «emozionare tranquillizzando». Ricordiamo la paura e l’angoscia di giorni in cui non ci sentivamo certo nella condizione di coloro che vengono tranquillizzate e tranquillizzati. Eppure l’enumerazione di contagi e decessi in assenza di ragionamento complesso sulla malattia e sul morire è, di fatto, un modo come un altro per contribuire a una narrazione finzionale, quasi da action movie, della morte. Non stupisce che finita la parte più ricca di tensione del “film” una parte di popolazione (verosimilmente la più spaventata) abbia preso a scendere in piazza affermando che tutto questo è una montatura e che dobbiamo poter tornare a prima, a quando la morte non esisteva.

Uscirne migliori

«Ne siamo usciti migliori?» è una domanda che è stata posta spesso ed è anche la domanda sbagliata. È sbagliata perché non chiarisce migliori su che scala, rispetto a chi e rispetto a cosa. La domanda corretta forse è: ne siamo usciti più consapevoli, meno spaventati, più adulti, più in grado di prenderci le nostre responsabilità di individui inseriti in una società?

Quando frequentavo le scuole medie era in voga una collana di libri con le copertine dai colori fluo, si chiamava Le ragazzine e, a 25 anni di distanza mi sento di poter dire, era meno scema di quanto a una prima occhiata potesse sembrare. Ricordo quei volumetti come un buon training umoristico, oltre che come un primissimo approccio femminista ad alcune questioni di base. Nel mio preferito però c’era un’adolescente che spiegava di avere dei problemi con il concetto di mortalità.

Questo pensiero era talmente tormentoso che al corso di teatro, mentre si cercava di mettere in scena una qualche tragedia classica, la protagonista finiva col chiedere a un’esasperata insegnante se per caso si poteva evitare di pronunciare la parola che faceva rima con “torte”, magari sostituendola con la parola “banana”. L’effetto comico di questa richiesta paradossale mi fa tuttora sorridere quando anche solo ci penso, ma possiamo poi noi, in effetti, dire di vivere in modo così diverso da quell’adolescente uscita dalle pagine di un libretto degli anni Novanta? Non possiamo, in un contesto in cui si continuano a fare improbabili slalom al fine di evitare quanto più possibile la parola che fa rima con “torte”.

«L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire» sono parole pronunciate a luglio sempre dal premier Draghi, tra le più autentiche ed efficaci che abbiamo sentito dall’inizio della pandemia. Sarebbe stato bello e sarebbe stato soprattutto utile assistere a una comunicazione altrettanto diretta in occasione del 2 novembre, giorno quantomai adatto per ricordare chi non c’è più. Non ci resta forse che sperare nel Natale, là dove sappiamo che pronunciare centinaia di migliaia di nomi è impossibile, così come sappiamo che ci sono molti modi per evitare l’oblio. L’insistenza sul ricordo dei deceduti può apparire ridondante, morbosa, addirittura fuori luogo, ma non bisogna mai stancarsi di sottolineare come il discorso sulla morte sia innanzitutto un discorso su come affrontare la vita.

Festeggiare

Se mi chiedessero qual è la cosa più bella che ho visto dall’inizio di questa nuova era credo che non avrei troppi dubbi: è stata una tavolata di sei persone che festeggiava gli 85 anni di un nonno. Data la posizione del tavolo più che vederla l’ho in effetti sentita e, a un certo punto, ho sentito anche una donna invitare ognuno dei commensali a prendere quell’occasione: «Come se fosse l’ultima cena della propria vita ma anche come se invece fossimo immortali».

Mi sono chiesta che cosa intendesse dire esattamente, poi ho pensato che non era troppo importante. Quel che era importante è che si trattava di una frase sul morire e sulla consapevolezza del vivere pronunciata con semplicità, senza alcuna pretesa intellettuale, con allegria in un contesto allegro. Allora si può fare, ho pensato, si può essere sia consci che allegri e non è necessariamente una pratica per pochi eletti. All’uscita del ristorante noi amiche abbiamo salutato il festeggiato, e il giovane nipote gli ha detto «hai visto nonno, hai fatto colpo». Subito dopo ha simulato il gesto di prenderselo sulle spalle, ma era uno scherzo, ché a quell’età le persone vanno maneggiate con cura. Pieno di troppo entusiasmo il ragazzo ha optato dunque per prendere in braccio la madre e portarla via seguito dal resto dei famigliari. Ridevano tutti, accompagnando i passi incerti del più anziano con gesti di protezione, avvolti da un’aura che mi pareva di sollievo.

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