Norman Douglas aveva conosciuto questa giovane ereditiera di origine cubana e con tutte le ragioni se n’era presto invaghito. In quel periodo lo scrittore britannico soggiornava a Napoli mentre la donna viveva nella grande casa a pochi passi dalla cattedrale di Westminster che le aveva lasciato il suo precedente marito: perciò i due organizzavano i loro rendez-vous a Merano, nella Villa Federica.

La giovane donna non viaggiava mai senza la sua cameriera né senza il suo bassotto, un cagnolino sommamente egoista e a cui della sua padrona, che pure lo adorava e vezzeggiava, così come degli ospiti della casa, non importava un fico secco.

Un bel giorno quel cane – con quella faccia “insolente, beffarda” che Norman Douglas odiava – scomparve dalla Villa Federica. Dopo due giorni, la sua padrona pagò decine di inserzioni sui giornali locali offrendo laute ricompense per chi le avrebbe riportato il suo cucciolo, fece avviare solerti indagini alla polizia e ingaggiò anche qualcuno a Bolzano e a Innsbruck per rintracciare il bassotto in quelle zone se mai fosse scappato tanto lontano. Proprio non si dava pace: fornì anche alle autorità della frontiera italiana una dettagliata descrizione del cane nell’eventualità che qualcuno avesse provato a portarlo all’estero. Niente. Il bassotto era svanito nel nulla.

E c’era addirittura chi, in considerazione della nota antipatia che Dougals aveva per l’animale, arrivò ad accusare lo scrittore di essere il responsabile della sua scomparsa. Finché un giorno fu proprio lui, durante la sua abituale passeggiata prima di colazione, a imbattersi nel bassotto: malconcio e divorato dalle tarme, se ne stava su un sentiero in un boschetto di pini.

La sua ricompensa fu un strano vaso di bronzo giapponese che qualche mese prima aveva attirato l’attenzione di Douglas dalla vetrina di un antiquario parigino. Quel brûle-parfum, forse per la sua forma di sfera schiacciata, forse quell’uccello acquatico ritratto mentre spiccava il volo, forse per quel coperchio - forato perché da lì uscissero i fumi dell’incenso bruciato all’interno - che raffigurava uno strano animale, qualcosa di simile a un cane, nell’atto di mordere un serpente, lo aveva incuriosito: avrebbe voluto comprarlo allora, ma non lo comprò.

Glielo regalò allora la giovane amante per sdebitarsi del ritrovamento del suo adorato bassotto con pedigree. Da quel giorno, e per tutto il resto della sua lunga vita, Norman Douglas avrebbe utilizzato quel vaso giapponese come recipiente per i biglietti da visita dei tanti amici, dei tantissimi conoscenti che lo andavano a trovare.

Quarant’anni fa, nella traduzione di J. Rodolfo Wilcock, Biglietti da visita uscì per Adelphi, raccogliendo una buona parte di quei biglietti e dei ricordi che Douglas conservava dei loro intestatari a distanza di decenni. Attraverso i biglietti da visita raccolti e conservati in quel vaso giapponese piazzato nell’ingresso di casa, e corredando ciascuno, talvolta con una riga appena, altre volte con decine di pagine di memorie, Douglas scrisse né più né meno che la propria autobiografia.

Ora, il nuovo libro di Tullio Pericoli cos’altro è se non un brûle-parfum stipatissimo di tutti i volti che ha incontrato nella sua vita? Come se avesse fin qui conservato i biglietti da visita di Theodore Adorno, Charles Baudelaire, Saul Bellow, Thomas Bernhard, Karen Blixen, Jorge Luis Borges, Luis Bunuel, Freud, Celine, De Chirico, Eco, Fellini, Freud, Gadda, Nietzsche, Pasolini, Perec, Pessoa, Picasso, Proust, Yourcenar, e soltanto adesso li offrisse ai nostri occhi.

Gli schizzi, i brouillons, le “brutte” di cui pare che un tempo si disfacesse e che poi Giovanni Testori lo convinse a conservare, adesso per la prima volta sono a disposizione di tutti, come anche i disegni più compiuti.

Nelle quasi mille pagine di Ritratti di ritratti compaiono disegni risalenti agli anni Ottanta, agli anni Novanta, e al Ventunesimo secolo: è l’atelier perenne di Pericoli, una collezione che non potrà mai avere fine, né vi è alcun desiderio di portarla a termine.

Comprendere

Pericoli è un disegnatore a statuto speciale in virtù della sua unicità: osservando questi volti si ha la certezza che, prima di ritrarli, avesse letto tutti gli incartamenti della vita di ciascuno di loro. Che avesse letto ogni libro degli scrittori. Che avesse visto ogni film dei registi. Che avesse sbirciato tra le loro bollette. Tra i loro diari. La cosa facile è copiare. La cosa difficile è comprendere.

Nell’unica pagina del libro scritta con un linguaggio alfabetico racconta questo: «Nel silenzio del mio studio talvolta sento un fruscio lieve, un brusio, quasi un raspare che ora mi sorprende, ora mi fa compagnia. So che viene dai miei cassetti, dove conservo i tanti ritratti che ho disegnato negli anni. L’uno sopra l’altro, sia quelli finiti che quelli fatti in corso d’opera. Mi fermo e ascolto: i rumori smettono, poi sommessamente riprendono.

I miei disegni, mi dico, riposano; dormono, sognano e si agitano. Un giorno mi sono deciso e sono andato a vedere che cosa succedeva. Dal fondo del cassetto i disegni sorpresi mi guardavano, ma non erano più gli stessi.

La convivenza per tanti anni con gli schizzi, gli studi, le prove e gli errori, gli azzardi e gli sforzi che avevano preceduto la loro forma compiuta, li aveva contagiati - trasformati. Una buffa storia, ho pensato. Ho preso il contenuto di quei cassetti così com’era e l’ho versato in questo libro».

Perciò in queste mille pagine c’è tutto il mondo di Pericoli: il sorriso di Auden, gli occhiali e i calzini di Allen, il foulard avvolto al collo della Bachmann, la sigaretta tra le labbra di Roland Barthes, Samuel Beckett (e dopo aver visto ogni disegno dell’irlandese risulta evidente che Pericoli lo abbia conosciuto meglio di chiunque altro – meglio dei suoi lettori, meglio dei critici, probabilmente meglio di sua moglie), il vampiresco Carmelo Bene, il bastone e la cravatta di Jorge Luis Borges, il sigaro di Bertolt Brecht, gli occhi di Dino Buzzati che ricordano un’opera di Carol Rama, Roberto Calasso con trentuno libri a fargli da cornice (nella Smorfia il 31 è il padrone di casa: un caso?), Elias Canetti che sembra proprio il tipo con cui evitare ogni litigio, i cinquantatré ritratti di Umberto Eco,… Ritratti di ritratti (Adelphi, neanche a dirlo) è il künstlerroman di una carriera artistica, di una vita trascorsa con la matita in mano; ancor più specificamente, Ritratti di ritratti è un’autobiografia nascosta tra i volti degli altri.

Il tempo

E dato che quando si legge un libro pubblicato da Adelphi capita che tornino alla mente altri libri della stessa casa editrice - come mi è già successo con Norman Douglas - ora mi ricordo di quella proposta che l’amata Elizabeth fa al suo giovane marito, Stephen, nel romanzo di Christopher Isherwood Il mondo di sera (che di recente è ritornato in libreria): «Senti un po’, perché non facciamo un’antologia con le cose che la gente avrebbe dovuto dire in occasioni celebri?».

Senti un po’, mi dico, perché non facciamo anche un’antologia con le cose che hanno detto i fortunati dopo essersi visti ritratti da Pericoli? Che parole pronunciò Eco quando vide il suo primo disegno? Cosa disse Italo Calvino? E come reagì Woody Allen dopo essersi visto su quello specchio di carta? Cosa viene da dire davanti al foglio che ritrae ogni intonazione espressiva della tua natura lunatica e idiosincratica?

La pietra di paragone dei ritratti di Pericoli, però, non è mai unicamente il volto originale, è il tempo, il tempo che su quel volto ha appena soffiato prima che lui lo osservasse e che continuerà a soffiare anche quando lui avrà distolto lo sguardo dal disegno finito.

Ecco perché questi ritratti, a distanza di decenni e di qualche centinaio di matite consumate, sono ancora fedeli a quegli uomini e a quelle donne, più di quanto non siano fedeli e vitali le fotografie. Ecco perché questi disegni sono tuttora appena meno vivi di noi. Ed ecco perché era ora che Tullio Pericoli svuotasse il suo brûle-parfum e ci facesse vedere cosa ci stava nascondendo.

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