Gianluca mi scrive che facciamo prima SanPa, è così che mi viene confermato che sarò uno dei tre autori del documentario sulla storia di San Patrignano e Vincenzo Muccioli. Per trenta mesi, a partire da quel primo WhatsApp del 2018, ho lavorato assieme a tanti compagni di viaggio, immerso in centinaia di ore di materiale di repertorio proveniente da cinquanta archivi diversi, ossessionato da audio e videointerviste a tossicodipendenti, ex tossici e testimoni, sepolto fra libri e articoli e confidenze antiche e attuali, affondato nel tentativo di rievocare una memoria collettiva rendendola viva e presente.

I cinque episodi della docuserie – raccontata solo dalle parole dei protagonisti e senza nessuna voce guida narrante – sono stati rilasciati da Netflix fra Natale 2020 e Capodanno 2021. La potente reazione che ne è seguita e soprattutto i mesi della sua durata (compreso uno speciale su San Patrignano pubblicato da questa testata, per fare un esempio vicino), mi hanno confermato ciò che sospettavamo da tempo: questa storia è ancora una ferita aperta.

Allora ho voluto continuare a convivere per un altro anno, oltre la docuserie, con tutte le domande che avevamo spalancato e che non ne volevano sapere di scrollarmisi di dosso. Una storia comune s’intitolava il mio file, perché mi dicevo: è una storia che appartiene a tutti, riguarda tutti, ci racconta come comunità.

Forse anche perché, dopo aver chiesto per tanto tempo e a così tante persone di essere oneste e raccontare tutta la loro vicenda, mi è sembrato il minimo e naturale fare a me stesso le medesime domande scomode.

È stato un po’ come ribaltare la telecamera e sentirsi nudo davanti alla domanda: e tu, Carlo? Perché l’hai fatto? Perché hai scritto il documentario? Cosa cercavi di così nascosto anche dentro te?

«Registra quello che accade»

Dopo aver scritto centinaia di sceneggiature di CameraCafé, Piloti o spettacoli teatrali o monologhi, trovarmi all’improvviso a occuparmi di una storia vera, ha illuminato dubbi e pensieri sul mio percorso personale: cosa significa scrivere storie e cos’altro – se è altro – occuparsi di realtà?

L’arco del personaggio va trovato anche nella narrazione del vero, perché le esistenze sono fatte di tappe, di soglie, di guardiani, come le favole, come le tragedie. E allora diviene normale pensare anche al proprio arco narrativo – anche tu che sei spettatore – e chiedersi se si stanno tradendo le promesse fatte a sé stessi o agli altri.

Avevo bisogno di fare la strada a ritroso, rimettere a posto dei tasselli della memoria mia oltre che di quella comune. Rivivere oggi per dodici ore al giorno gli anni Ottanta, subendo il bombardamento di telegiornali e televisione generalista già assorbito all’epoca da minorenne, per poi passare le altre dodici ore fra il sonno e la realtà del 2018 o 2019, è un esperimento curioso, soprattutto se protratto per giorni.

In quel periodo ho avvisato il mio psicoterapeuta. Mi ha detto: «Hai fatto bene a dirmelo; registra quello che ti accade».

Reimmergersi nel contesto del proprio passato è piuttosto smascherante, la distanza e il senno di poi ti fanno sorridere di ciò che prendevi per oro colato da bimbo. Io ero sicuro che quel detersivo in quanto blu lavasse molto meglio, che quell’olio fosse davvero dietetico, che la televisione non mentisse mai. Ora mi sembra impossibile averci creduto anche per un solo istante. È tutto così smaccatamente finto, gridato, sorridente al limite della paresi facciale.

Memorie personali

14-03-1990 Roma Vincenzo Muccioli (Rimini, 6 gennaio 1934 – Coriano, 19 settembre 1995) è stato un imprenditore italiano, fondatore della Comunità di San Patrignano dedicata al recupero delle vittime della tossicodipendenza Nella foto: Vincenzo Muccioli davanti a Montecitorio durante una manifestazione delle "Madri Coraggio"

La distanza rende palesi certi meccanismi. Eppure dinamiche tutt’altro che dissimili funzionano oggi su ognuno di noi, tra social e fake news; quindi forse è vero che non impariamo dai nostri errori passati. Siamo stati educati, ci siamo evoluti, la popolazione italiana è cresciuta davanti ai programmi di questo elettrodomestico focolare; poche cose come la televisione mostrano le mutazioni di una comunità nel loro diventare abitudini, mode, cliché. Nel diventare storia comune.

Ma è l’incontro dal vivo con i protagonisti, ospiti controllori e controllati della comunità – molti dei quali potrebbero essere miei fratelli maggiori, per me che già ne ho quattro fra fratelli e sorelle, oltre ai dieci nipoti di tutte le età che fanno domande ed esigono precisione – che non può che far riemergere memorie e mie vicende personali: la Milano da bere degli anni Ottanta mentre io non sapevo che se la stessero bevendo tutta, mio padre che mi ammonisce di stare attento alle siringhe ma non fa in tempo ad ammonirmi su altri disastri della vita, certi incontri da adolescente che poi tornano in età diverse, la droga con cui è obbligatorio relazionarsi sia che tu la assuma, sia che tu ogni giorno scelga di non assumerla.

«Scusa, papà» ho chiesto una volta da bambino dopo averci pensato per mesi, «ma quelli che ti drogano regalandoti le caramelle per strada che non bisogna accettare, dentro nella caramella hanno scritto il nome? O sulla carta? O ti danno un bigliettino?»

«E perché mai, Carlopepe?», mi ha interrogato mio padre.

«Se mi droga gratis per farmi diventare un cliente, avrà trovato il modo per dirmi come si chiama, no? Almeno un indirizzo dovrà darmelo, altrimenti come lo ritrovo? Che schifo di piano».

Amnesia collettiva

yFoto Lapresse - Matteo Corner 15/03/2018 Milano (Italy) Cronaca Nella foto: Presentazione mostra Collezione San Patrignano alla Triennale Nella foto

Nonostante sia del secolo scorso, nonostante nel repertorio si assista a una carrellata di capigliature improbabili e spot contro l’Aids di pessimo gusto, nonostante ci sembrava fosse ormai morta e sepolta, questa vicenda parla di oggi.

Le dipendenze, le droghe, il nostro bisogno dell’uomo forte che decide tutto lui, l’impreparazione dello stato di fronte al dilagare di un problema generalizzato come una pandemia, qual è il malessere di cui la droga, a detta di molti, sarebbe unicamente un sintomo? Siamo sicuri che questi siano temi superati o addirittura risolti? Il fatto che nessuno volesse che questa storia venisse raccontata, se non una parte di ex tossicodipendenti inascoltati per decenni, mi fa più pensare a una sorta di amnesia collettiva. Tutti senza memoria, a parte loro, ché in nessun modo possono dimenticare senza prima renderla reale, la loro storia, in un paese che li pretende invisibili.

Perché tutti assieme abbiamo fatto finta di dimenticarcela? Che cosa spinge 60 milioni di persone a cancellare un pezzo di memoria collettiva provando addirittura a riscriverci sopra? È forse un meccanismo di difesa?

Quando mi ritrovo con mia mamma per festeggiare il suo ottantesimo compleanno, lei sintetizza: «Mi pare di ricordare che in tanti cambiarono idea man mano che la storia del Muccioli e dell’eroina andava avanti. Forse per questo nessuno amava ricordare di essersi sbagliato. Mi sa che andò così, e dall’oggi al domani tutti hanno preferito non parlarne più, mai più. Come se le storie scomparissero. Stupidotti».

Il libro è dedicato ai custodi di memorie e a chi non ce l’ha fatta a raccontarla, perché non posso dimenticare che lo stigma che portano addosso gli ex consumatori di droga è maggiore di quello di qualsiasi altro malato. Perché la dipendenza è malattia e si può guarire; non è colpa inconfessabile e perenne, da additare ai bambini affinché se ne tengano alla larga terrorizzati e schifati.

Ma in questo ribaltamento della telecamera non ci sono dentro solo io, risultiamo inquadrati tutti noi, spettatori vivi o meno all’epoca dei fatti, ma conviventi in una comunità che condivide questa memoria collettiva. È un inconscio di tutti col quale serve fare i conti, senza temere in alcun modo la complessità, perché è ciò che abbiamo in comune che ci rende un unico paese. Tocca preservarlo da falsificazioni o semplificazioni dannose, perché l’oblio è davvero una scelta miope. Da stupidotti, direbbe mia mamma.


Carlo Gabardini è autore di Una storia comune – SanPa: io, noi, tutti in uscita il 10 febbraio per HarperCollins.

© Riproduzione riservata