Questo autunno insegno un seminario riservato a diciotto matricole interessate alle materie umanistiche. È un seminario sui cavalieri, che mescola cantari medievali e film di cappa e spada, Orlando che diventa furioso e Batman che diventa cavaliere oscuro, i Jedi e i samurai, Tasso e Tarantino.

A un certo punto, durante una discussione sul Cavaliere inesistente di Italo Calvino, una studentessa particolarmente colta (una che già ha affrontato la storia europea al liceo) mi ha chiesto se è vero che i cavalieri delle leggende, quelli eroici di cui in occidente ricordiamo le imprese, sono sorti, come aveva letto in qualche manuale, dalla necessità, per i rampolli di famiglie dabbene, di costruirsi una propria fama, una propria storia, quando non nascevano primogeniti.

L’idea le tornava forse in mente perché eravamo nel punto del romanzo in cui Calvino ci rivela che non è lui a raccontare la vicenda di Agilulfo, Gurdulù e Rambaldo, ma bensì una suora loro coeva: una che ha abbandonato il mondo perché non si è sposata — né ha ereditato la casa, il titolo, il nome della buona famiglia in cui è nata. I primogeniti ereditano la fortuna di famiglia, spiegava alla classe la mia studentessa.

Gli altri, se sono maschi, imbracciano scudo e spada, montano a cavallo e vanno a farsela da sé una fortuna. Non eravamo ancora arrivati al finale, in cui si scopre che forse la suora narratrice era in realtà Bradamante, anche lei un cavaliere — anzi, una paladina.

Ma d’altronde, come Ariosto ci rivela nell’episodio (poco studiato a scuola) della Rocca di Tristano, Bradamante è una che i paradigmi di genere li spezza, e quando fa il cavaliere conta anche lei, almeno per la magia di Merlino e per le regole di certi castelli di Francia, come un maschio. In ogni caso, l’idea che i miei maschi cavalieri, tenuti insieme dall’armatura, siano tutti un po’ figli cadetti, esclusi dalla patrilineare trasmissione di un destino ereditario in cui si nasce e basta, mi ha rapito, e ho consigliato alla studentessa di scrivere il suo saggio di metà semestre su questo.

Patriarca in erba

Anche io, sulle pagine di questo giornale da cui manco da qualche settimana, ho pensato di scrivere una specie di saggio di metà semestre sulla primogenitura, questa speciale condizione maschile che mi fa, ahimè, poco cavalleresco.

Mi è capitato infatti di nascere per primo, di abitare il ruolo su cui si coalizzano di più le paranoie identitarie del patriarcato: quello del primo figlio maschio appunto, di colui che non solo eredita ma ha anche il potere (il dovere?) di trasmettere in eredità a sua volta quel che la sua stirpe gli consegna.

Addirittura, in un consesso di donne (mia sorella, le mie cugine), mi è capitato di nascere unico maschio nella famiglia di mio padre: unico titolare del suo cognome, e dunque tradizionalmente deputato a tramandarlo a qualche altro maschio facendomi, a mia volta, padre. Sono insomma nato un po’ patriarca in potenza, o almeno in augurio—se non in minaccia, in ansia addirittura.

Al cospetto delle formidabili fettuccine di mia zia, ogni Santo Stefano o ferragosto dacché ho passato i trent’anni, avverto sempre più esplicita l’impazienza del biologico clan radunato a tavola, che si aspetta di continuare ad esistere attraverso di me.

Quand’è che produrrò un ulteriore erede, che proseguirò questa linea di cognominati evidentemente partita, per quel che posso capirne di storia onomastica, da un qualche tizio che in una qualche prima modernità di una qualche Italia mediana portava un qualche nome simile a Giovan Matteo, combinando quelli degli evangelisti forse più diversi tra loro in un patronimico levigatosi, attraverso i secoli, nella parola che i miei studenti anglofoni non sanno pronunciare appresso a “professor”: Giammei? Poco importa che ormai la civiltà occidentale e la legge italiana prevedano opzioni per trasmettere a chi nasce il nome della madre, a sé, o assieme a quello del padre.

Persino gli eredi della monarca più celebrata di questi ultimi due secoli, pur ricevendo i loro nomi e onori genealogici da una figlia femmina di un secondo figlio, ci appaiono squassati dalla mitologia della primogenitura.

L’avventura e il destino

Se ha ragione la mia studentessa, e i cavalieri sono secondi figli, i primogeniti sono principi. Freud ci insegna che la tragedia dei principi è quella di desiderare, a propria insaputa, di sostituirsi ai padri che vorrebbero amare, o perlomeno vendicare.

Ci provano pure a fare i cavalieri erranti, a darsi all’avventura e al desiderio, ma incappano invariabilmente nel destino genealogico connaturato al loro principato (“primo” e “principe” sono parole fratelle). Ecco, forse la tesi del mio saggio di metà semestre sulla primogenitura sarebbe questa: i cavalieri non sono primi figli perché, nel ventaglio delle opzioni per i maschi di valore, hanno la libertà di scegliere l’avventura, mentre il privilegio dei loro fratelli maggiori è anche un destino ineludibile.

All’avventura dei cavalieri, appassionante come ogni storia contorta, si contrappone il destino lineare degli eroi, che infatti sono spesso principi. Com’è ironica la prima canzone di Simba, l’unica da solista per lui nel Re Leone, in cui dichiara di voler diventare presto un re senza rendersi conto di attirare così su di sé il tragico fato di vedere Mufasa morire.

Da un simile destino fugge subito, vivendo una parentesi di felicità cavalleresca coi suoi genitori d’anima Timon e Pumbaa, ma lo spettro del padre di cui si augurava inconsapevolmente la morte lo riconduce poi alla rupe della sua stirpe, al dovere della trasmissione.

È la storia di Amleto, principe di Danimarca, e in fondo di Edipo, ignaro principe di Tebe: primogeniti vendicatori che, però, finiscono peggio — forse perché una parentesi cavalleresca lontana dal trono vacante non l’hanno vissuta. Che palle essere principi.

Responsabilità compulsiva

Quando sono particolarmente stanco o triste e non riesco a dormire sintonizzo Netflix su alcuni contenuti confortevoli e alienanti, che mi distraggono dalle angosce del dovere.

Ultimamente torno spesso a un cartone animato di prodigiosa creatività, prodotto disegnando storie di surreale fantascienza per dar corpo ai brani di alcuni dialoghi registrati in un podcast di culto, The Duncan Trussell Family Hour, che l’eponimo comico americano diffonde gratuitamente sul suo sito intervistando da molti anni stregoni, maestre di meditazione, guru, guaritrici e sciamani psichedelici.

Si intitola The Midnight Gospel e si impernia sulla cornice narrativa di un maghetto lazzarone, Clancy (cioè Duncan Trussell medesimo), che, dalla sua roulotte su un pianeta coloratissimo, infila la testa in un simulatore di universi di seconda mano per visitare in forma d’avatar alcuni pianeti virtuali in cui può intervistare personaggi che non esistono (cioè gli interlocutori del suo podcast).

Nell’ultimo episodio della serie il protagonista intervista sua madre, in una lisergica scena in cui i due si partoriscono e allevano a vicenda per poi trasformarsi in pianeti destinati ad annichilirsi serenamente in un buco nero. Il dialogo proviene da un podcast in cui Duncan intervistò per davvero la sua vera mamma, psicologa e terapista un po’ hippie malata di cancro terminale, interrogandola allegramente, con tenerezza e franchezza, su quel che consiglia ai suoi pazienti e su come lui, da figlio, potrà sopportare la sua imminente morte — avvenuta in effetti oltre vent’anni fa.

Di tutta quella struggente (eppure rasserenante) conversazione animata mi commuove specialmente il punto in cui la mamma racconta a Clancy/Duncan di quando lo ha portato a casa, e suo fratello maggiore, il primogenito, di colpo ha dovuto credere di non essere più, come in effetti era, “piccolo”, ma “grande”. Nel suo nuovo ruolo di primogenito, egli si trovava poi improvvisamente lodato e celebrato quando si mostrava giudizioso, affidabile, d’aiuto: un addestramento al dovere che Clancy/Duncan non avrebbe conosciuto.

La responsabilità è certo una cosa bella, verso cui i maschi andrebbero incoraggiati. Ma, come spiega la mamma nel cartone, rischia di diventare una compulsione, addirittura una specie di droga per i primogeniti principi eroi: persino un ricatto, che io in effetti mi scopro a vivere come una prigione di cui mi vergogno. D’altronde anche Caino era primogenito.

Forse la soluzione a queste complicazioni tra chi viene prima e chi viene dopo è provare a rifiutare mentalmente le gerarchie dell’eredità, ricordandoci che certi cavalieri particolarmente di successo (Luke Skywalker, Guidon Selvaggio della casa di Chiaromonte, la stessa Bradamante) vivono la sorellanza, la fratellanza, in regime di parità orizzontale, essendo né primi né secondi ma gemelli.

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