In occasione del 27 gennaio, quando in tutto il paese si ricorda lo sterminio degli ebrei, è importante riflettere sull’efficacia di questa ricorrenza alla luce delle sfide del nostro tempo. Scriveva lo storico Yehuda Bauer che la Shoah è stato un genocidio senza precedenti, che si proponeva di eliminare gli ebrei non solo in un territorio, ma in ogni luogo della terra in quanto elementi corrosivi di tutta l’umanità. La sua memoria ha permesso ad altri popoli, come ad esempio agli armeni e i ruandesi, di rivendicare sulla scena pubblica il diritto al riconoscimento delle proprie sofferenze e, soprattutto, il diritto alla giustizia.

Allo stesso tempo, a livello educativo la riflessione sull’Olocausto è stata fondamentale per far capire che i genocidi non sono stati una catastrofe extra-storica, ma sono avvenuti per la responsabilità degli esseri umani, in un campo di battaglia dove c’erano carnefici, complici, giusti, spettatori indifferenti e resistenti. In poche parole, questa memoria ci ha insegnato che di fronte al male estremo si può scegliere, perché nulla è scontato e determinato a priori.

Oggi, venti anni dopo la legge n. 211 del 20 luglio 2000 che ha istituito il "Giorno della Memoria”, dobbiamo constatare che questo percorso sta mostrando alcune criticità che, se non affrontate alla radice, rischiano di limitarne la funzione pedagogica e di mostrare una profonda inadeguatezza rispetto alla possibilità di prevenire nuovi genocidi e, quindi, di rendere effettivo il “mai più”.

La critica, fatta da molti studiosi e portata avanti dalla Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti attraverso una Carta della memoria che è stata sottoscritta da storici, filosofi, politici ed esperti di prevenzione dei genocidi, è che quel “mai più” sia nel tempo diventato una formula rituale e retorica e, soprattutto, senza alcun progetto per il futuro. In altre parole, è come si ignorasse il fine ultimo della memoria.

In quest’ottica, come ha scritto la semiologa Valentina Pisanty ne I guardiani della memoria (Bompiani, 2020), sembra che «l’assolvimento del dovere della memoria sia di per sé garanzia di un futuro libero da ogni ingiustizia paragonabile a quella patita dagli ebrei durante gli anni del nazifascismo». La domanda da porsi è: basta ricordare per tutelarsi contro la possibilità che ciò che è accaduto capiti di nuovo?

La parola genocidio è stata coniata dal giurista ebreo Raphael Lemkin nel 1942 per indicare la volontà di distruzione di una collettività etnica, religiosa o sociale. Lemkin la considerava una minaccia che riguardava l’umanità intera, poiché la distruzione di qualsiasi minoranza annientava non solo chi veniva colpito, ma impoveriva la ricchezza della pluralità umana. Nel dopoguerra Lemkin lavorò strenuamente per la promulgazione di leggi internazionali che proibissero il genocidio, raggiungendo questo obiettivo nel 1951, con l’entrata in vigore della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. C’è un aspetto importante della Convenzione: vi si afferma che devono essere puniti non solo gli atti di genocidio, ma anche l’incitamento diretto e pubblico a commetterli.

Dal ’48 ad oggi, secondo le stime di Genocide Watch, si sono susseguiti più di 55 genocidi con oltre 70 milioni di vittime. Allo stesso tempo sono nati i Tribunali penali internazionali, si è affermato il principio di intervento umanitario e si ragiona intorno all’Early warning system, un sistema di allerta qualora si creano i presupposti per un genocidio.

La memoria della Shoah, oggi, ha senso se politici e cittadini che il 27 gennaio pronunciano “mai più” si impegnano concretamente per contrastare l’odio contemporaneo. Ricordare la Shoah dovrebbe significare scavare a fondo sui meccanismi dell’antisemitismo e interrogarsi sulle complicità che lo hanno permesso, ma nello stesso ragionare sugli strumenti politici e culturali che possono impedire oggi un nuovo genocidio.

Oggi, 27 gennaio 2021, la Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti verrà ascoltata dalla Commissione esteri della Camera dei deputati a proposito di memoria e prevenzione di nuovi genocidi. In quell’occasione condividerà con i deputati tre proposte concrete che possono avvicinare maggiormente il nostro Paese alla prevenzione di nuovi genocidi.

In primis chiederà la nomina di un advisor italiano, all’interno del Parlamento, che lavori con il Consulente speciale dell’ONU e con l’Unione europea. Proporrà inoltre alla Commissione esteri di assumersi l’impegno di redigere ogni anno un rapporto in cui si presentano all’opinione pubblica lo stato internazionale  dei diritti umani nell’ottica di prevenzione di nuovi genocidi (del resto la Shoah ci ha insegnato che la mancanza di informazione è un presupposto basilare per la perpetrazione di crimini contro l’umanità). Infine suggerirà la creazione, anche in Italia, di una agenzia autonoma e indipendente sui diritti umani, che in collaborazione con la Corte penale internazionale possa indagare in modo permanente sullo stato dei diritti nel mondo e sui crimini contro l’umanità.

Sono azioni concrete che porterebbero l’Italia ad aderire a modelli già presenti in altri paesi del mondo e che l’Unione europea ci chiede da tempo. Del resto, fare memoria oggi non può prescindere dal guardare cosa succede ai rohingya in Bangladesh, nei campi di concentramento per uiguri nello Xinjiang, nello Yemen colpito da una guerra fratricida, alla minoranza yazida in Iraq, durante gli scontri nel Sahel. Così fare memoria oggi non può prescindere dal porre la massima attenzione verso i fondamentalismi, i nuovi megafoni dell’odio e quei conflitti che potrebbero scaturire nel futuro prossimo a causa dei cambiamenti climatici.

Joshua Evangelista è membro dell’ufficio comunicazione della Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti

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