In Italia e in molti paesi del mondo la pandemia di Covid è entrata in una fase di definitivo declino, noi ci ammaliamo in maniera grave e moriamo a causa del Covid molto meno di prima ma per un solo motivo: ci hanno salvato i vaccini.

Però, è giunto il tempo di porci alcune domande fondamentali. Quasi tutte le grandi compagnie farmaceutiche del mondo, da quando la pandemia è scoppiata a gennaio 2020, si sono lanciate in una frenetica corsa per sviluppare il vaccino contro il Covid nel più breve tempo possibile.

Produrre vaccini dall’efficacia straordinaria- che riducono il rischio di contrarre il Covid in maniera grave e di morire del 95 per cento - in un tempo così breve - i primi erano già sul mercato nel dicembre del 2020- è stata un’impresa titanica. Ma è stato merito delle compagnie farmaceutiche o di qualcun altro?  E il prezzo a cui vengono venduti questi vaccini è giusto?

Vi anticipo le risposte: il 99 per cento delle ricerche necessarie per produrre i vaccini anti-Covid sono state compiute da scienziati di università statali e sono state finanziate con fondi pubblici, e solo l’1 per cento da ricercatori delle case farmaceutiche con soldi loro, per cui il loro contributo intellettuale è stato minimo; i prezzi dei vaccini anti-Covid sono da 5 a 25 volte più alti rispetto ai costi stimati di produzione, e quindi sono troppo alti e immorali.

Il più grande business di sempre

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Il vaccino anti-Covid ha rappresentato il più colossale affare economico della storia. Dall’inizio dell’era industriale, non era mai capitato che sulla faccia della Terra comparisse un virus nuovo e tanto letale, che non aveva mai infettato l’uomo in precedenza, e contro il quale perciò ogni essere umano fosse “naive”, cioè totalmente privo di difese immunitarie.

Ciascuno degli 8 miliardi di esseri umani sulla faccia della Terra per difendersi dal Covid può fare una sola cosa: vaccinarsi.

Il vaccino deve essere somministrato ad ognuno degli 8 miliardi di esseri umani sulla faccia del pianeta, e più volte, una per richiamo: perciò il vaccino anti-Covid è e sarà per secoli a venire il prodotto farmaceutico più venduto di sempre.

Che le industrie farmaceutiche cercassero in ogni modo di produrre un vaccino il prima possibile era giusto da un punto di vista morale – bisognava salvare l’umanità – ma anche comprensibile da un punto di vista finanziario.

Produrre un vaccino contro una virus, però, non è un’impresa semplice. Per prima cosa bisogna identificare il virus responsabile della malattia; poi, bisogna isolarlo e sequenziare il suo genoma; poi, bisogna identificare l’antigene del virus in grado di indurre la risposta immunitaria più efficace; poi bisogna sviluppare un metodo per inoculare il gene che codifica quella proteina antigenica all’interno del nostro corpo.

E solo dopo aver terminato tutti questi studi preliminari si può iniziare a sviluppare un vaccino.

Quante e quali di queste ricerche sono state compiute dalle industrie farmaceutiche? Nessuna. Le hanno fatte scienziati di università statali con soldi pubblici.

Il ruolo del pubblico

Quando l’epidemia di Covid-19 scoppiò, tra il novembre del 2019 e gennaio 2020, il nuovo coronavirus responsabile della malattia venne identificato e isolato dapprima da medici e scienziati delle Università di Wuhan e di Pechino, in Cina, dove l’epidemia aveva avuto inizio; successivamente, il virus fu isolato in varie strutture pubbliche nei vari paesi del mondo ove il virus si stava diffondendo: ad esempio, in Italia il virus fu isolato da scienziati dell’Istituto Spallanzani di Roma.

Isolato il virus, bisognava sequenziare il suo genoma: I primi che riuscirono nell’intento furono due team, il primo di ricercatori dell’Università di Shanghai guidati da Yong-Zhen Zhang, e il secondo di ricercatori delle Università di Wuhan e Pechino, guidati da George Fu Gao.

Immediatamente, questi scienziati depositarono le sequenze del nuovo coronavirus - denominato Sars-CoV-2 per distinguerlo dal coronavirus della Sars a cui era molto simile - in database online pubblici, a disposizione di tutti gli scienziati del pianeta.

Allo stesso modo si sono comportati gli scienziati delle maggiori università del mondo che hanno isolato e sequenziato le nuove varianti del coronavirus via via comparse nei vari paesi.

Quindi, già nel gennaio del 2020 il genoma del Sars-CoV-2 era a disposizione di tutti: chi voleva avrebbe potuto iniziare a sviluppare un vaccino.

Prima però bisognava identificare l’antigene del virus in grado di indurre la migliore risposta immunitaria.

In cerca dell’antigene

02 February 2023, Hesse, Marburg: A press spokeswoman points to a plasmid model at the G'rzhausen I Biontech site. Photo by: Sebastian Christoph Gollnow/picture-alliance/dpa/AP Images

Quando un virus penetra all’interno del nostro organismo, i nostri linfociti B cominciano a produrre anticorpi contro i suoi vari antigeni, cioè contro quelle proteine che si trovano sull’involucro esterno del virus, per neutralizzarlo ed impedire che infetti le nostre cellule; e i nostri linfociti T cominciano a riconoscere i suoi vari antigeni per inattivarlo e distruggerlo.

Però non tutti gli antigeni del virus sono uguali: gli anticorpi diretti contro certi antigeni impediscono al virus di penetrare dentro le nostre cellule e di infettarle- e perciò vengono detti anticorpi neutralizzanti-, altri anticorpi diretti contro altri antigeni no.

Per il Sars-CoV-2 bisognava capire quale fosse l’antigene in grado di indurre la risposta immunitaria in grado di bloccare la malattia.

Dai tempi dell’epidemia di SARS, scienziati dell’Università di Boston guidati da Michael Farzan grazie a studi finanziati con fondi dell’Nih – l’Istituto per la Salute Nazionale del governo degli Usa-, avevano scoperto che il virus della Sars utilizza la sua proteine spike per attaccarsi a speciali recettori chiamati ACE2 presenti sulla membrana delle cellule dei nostri polmoni e dei nostri vasi, per poi invaderle.

Era ragionevole supporre che anche il SarsS-CoV-2 utilizzasse la sua proteina spike per attaccarsi alle nostre cellule e poi penetrare al loro interno, e che quindi la proteina spike fosse quella più immunogena, perché anticorpi diretti contro di essa potevano impedire al virus di infettarle.

Difatti, molteplici studi in svariati laboratori del mondo, tutti finanziati da fondi pubblici, hanno dimostrato che era proprio così: perciò il vaccino più protettivo doveva scatenare una risposta immunitaria contro la proteina Spike del Sars-CoV-2.

Fare il vaccino

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Con queste informazioni in mano, già dal gennaio 2020 molte grandi case farmaceutiche iniziarono a sviluppare vaccini anti-Covid, che erano essenzialmente di tre tipi: vaccini a RNA, vaccini a vettore virale e vaccini a virus inattivato.

I vaccini a RNA (come Pfizer-Biontech e Moderna) sono costituiti da goccioline di lipidi ognuna delle quali contiene migliaia di copie dell’RNA messaggero che codifica la proteina spike del coronavirus: quando il vaccino ci viene iniettato nel braccio, le goccioline di grasso si fondono con la membrana lipidica delle nostre cellule vicine al sito di inoculazione e iniettano al loro interno le molecole di RNA; quelle nostre cellule si mettono a produrre la proteina spike del coronavirus, poi la espongono sulla loro membrana esterna, i nostri linfociti B e T la riconoscono come estranea e imparano ad attaccarla, e così attaccheranno anche il vero coronavirus qualora infettasse il nostro corpo.

Il primo ad avere l’idea di iniettare l’RNA dentro le nostre cellule usando goccioline di lipidi fu Robert Malone.

Nel 1987, quando era ancora  uno studente al Salk Institute di La Jolla, in California, mescolò molecole di RNA a goccioline di grasso, che poi versò su colture di cellule umane, le quali assorbirono l’RNA e cominciarono a produrre le proteine codificate da quell’RNA. Malone intuì il grande potenziale della sua scoperta: se le cellule possono creare proteine da un RNA iniettato dentro di esse, scrisse, «è possibile usare l’RNA come farmaco» anche per produrre vaccini.

Ma c’era un problema: negli anni Novanta, Natalina Karikó e Drew Weissman, due scienziati della Pennsylvania University di Philadelphia che stavano cercando di sviluppare un vaccino a RNA contro l’Aids, osservarono che se l’RNA veniva iniettato nei topi da esperimento scatenava una massiccia risposta infiammatoria che portava quegli animali alla morte, e quindi non poteva essere usato per un vaccino umano.

Però scoprirono che se l’uracile dell’RNA veniva sostituito con un’altra molecola chiamata pseudouridina, l’RNA iniettato nel topo diventava innocuo, quindi si poteva usare anche nell’uomo. (Non è un caso che poi la Kalikò sia stata assunta dalla Biontech per sviluppare il vaccino anti-Covid). Tutte queste ricerche sono state finanziate con soldi pubblici.

A questo punto, chi voleva produrre un vaccino RNA contro il Covid aveva già quasi tutto pronto: sapeva come fabbricare le goccioline di grasso, come sintetizzare l’RNA e quale gene inserire - quello della proteina Spike. Mancava solo una ultima tessera del puzzle.

Il ruolo della proteina spike

 Barney Graham, del Centro Ricerca Vaccini dell’Istituto Nazionale delle Allergie e delle Malattie Infettive degli USA, e Jason McLellan, dell’University of Texas di Austin, avevano scoperto che la proteina spike del coronavirus esiste in due forme: il virus usa la sua proteina spike per attaccarsi al recettore ACE2 delle nostre cellule nella forma “pre-fusione”; poi un enzima della membrana delle nostre cellule, chiamato TMPRSS2, taglia la proteina spike, e quella si chiude di scatto ripiegandosi su se stessa come un coltello a serramanico, ma chiudendosi avvicina la membrana del virus a quella della nostra cellula, che si fondono tra loro, e così la proteina spike assume la sua forma “post-fusione”.

Però, il sito dell’antigene che nella proteina in forma “pre” è esposto e attaccabile dagli anticorpi, nella forma “post” viene nascosto, e gli anticorpi non sono più in grado di attaccarlo: perciò i vaccini che contengono questo tipo di proteina inducono una risposta immunitaria meno efficace.

Graham e McLellan hanno scoperto che se si sostituiscono due aminoacidi nella proteina spike con altri due (due proline) la proteina spike resta fissa nella sua forma “pre”, attaccabile dagli anticorpi: perciò basta inserire questa modificazione nel vaccino.  Tutte ricerche finanziate da milioni di dollari di fondi pubblici, ricavati dalle tasse dei cittadini.

Quando Moderna e Pfizer hanno iniziato a sviluppare i loro vaccini a RNA sapevano già come farlo e cosa metterci dentro grazie a una enorme mole di conoscenze ottenute grazie a studi finanziati con soldi nostri e pubblicate sulle riviste scientifiche più importanti del globo, che hanno sfruttato a costo zero. Loro dovevano semplicemente predisporre le macchine per produrre quei vaccini su scala industriale.

Moderna poi, ha anche ricevuto un miliardo di dollari extra dal governo del presidente Trump per sviluppare il suo vaccino. Public Citizen, una associazione no-profit statunitense che tutela i diritti dei cittadini, in collaborazione con scienziati dell’Imperial College di Londra, ha stimato che i vaccini a RNA prodotti da Pfizer e Moderna potrebbero essere prodotti su scala industriale ad un costo tra 1,18 e 2,85 dollari a dose; invece, per esempio, l’Unione Europea ha acquistato il vaccino Pfizer a un prezzo tra i 15,5 e i 19, 5 euro (pari a 18,9-23,15 dollari) per dose; e il vaccino Moderna a un prezzo tra i 19,9 e i 22 euro (pari a 22,5-25,5 dollari) per dose.

Per i vaccini anti-Covid a vettore virale, come Oxford-Astrazeneca, le cose sono identiche. Questi vaccini utilizzano un adenovirus innocuo come “vettore” per trasferire l’informazione genetica del Coronavirus dentro alle nostre cellule.

Ma l’idea di utilizzare gli adenovirus per un vaccino era già venuta in mente a molti scienziati in varie università di tutto il mondo, che la stavano sviluppando dai primi anni duemila.

Così, gli scienziati di Astrazeneca si sono ritrovati tutto pronto: hanno preso l’adenovirus che provoca il raffreddore nello scimpanzé, innocuo per l’uomo, e modificato geneticamente in modo da renderlo incapace di replicarsi da scienziati di varie università, e hanno solo inserito nel suo DNA il gene che codifica la proteina Spike del SARS-CoV-2.

Quando ci inoculano questo vaccino, gli adenovirus iniettano il loro DNA nelle nostre cellule vicine al punto di inoculo, le quali si mettono a produrre la proteina spike del virus, la espongono sulla loro membrana esterna, e qui viene riconosciuta come estranea dai linfociti B - che iniziano a produrre anticorpi contro di essa, e dai linfociti T – che si attivano per uccidere e fagocitare le cellule infettate.

Paghiamo noi

Secondo uno studio di scienziati dell’Università di Amsterdam e dell’Imperial College di Londra, una quota compresa tra il 97,1 e il 99 per cento degli studi necessari per la ricerca e lo sviluppo del vaccino Astrazeneca è stato finanziato da governi o istituzioni caritatevoli, e in più il governo del Regno unito ha pagato 96,7 milioni di dollari per la sua sperimentazione clinica. Il vaccino Astrazeneca viene venduto a un prezzo tra i 2,9 e gli 8,5 euro (3,5-10 dollari) per dose.

Secondo i calcoli di Oxfam, Pfizer e Moderna grazie alle vendite del vaccino anti-Covid traggono un profitto totale di 65.000 dollari al minuto, pari a 93,5 milioni di dollari al giorno, e 34,12 miliardi di dollari l’anno. Il 99 per cento di quei profitti l’abbiamo finanziato noi.

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