Alla fine Matteo Salvini finge di vedere il bicchiere mezzo pieno: «Abbiamo 69 nuovi sindaci», dice con un tono incerto e insolitamente dimesso dopo avere ammesso gli errori nella scelta dei candidati delle grandi città. Lo ribadisce di nuovo nella conferenza stampa convocata d’urgenza per attaccare il metodo Draghi sulla delega fiscale. Il tono è sempre da animale ferito. Cinquanta nuovi primi cittadini leghisti su oltre mille comuni al voto è una percentuale irrisoria, anche per chi è un ostinato ottimista della politica, soprattutto per un capo di partito che fino a due anni ubriaco di consenso invocava i pieni poteri dalla spiaggia del Papeete di Milano Marittima.

L’amaro del capitano

Per trovare un largo consenso della Lega Salvini è necessaria una ricerca approfondita comune per comune, seguendo una discesa vertiginosa nella selva dei piccoli municipi. Persino in Calabria i voti totali raccolti alle regionali dalla Lega sono inferiori alle aspettative. Salvini ha praticamente traslocato tra Reggio e Cosenza per la campagna elettorale, convinto che il neo presidente Roberto Occhiuto (Forza Italia) avrebbe avuto un debito di riconoscenza per la vittoria. Così non è stato, la Lega rispetto alle precedenti regionali ha lasciato per strada 4 punti percentuali, tradotto in voti vuol dire meno 32 mila rispetto ai 95 mila ottenuti a gennaio dello scorso anno. Il che vorrà dire meno potere contrattuale all’interno della coalizione, il rischio è che Occhiuto non assecondi le richieste di Salvini per la vicepresidenza leghista. Un risultato amaro per il capitano della Lega, reduce da un finale di campagna elettorale segnato dallo scandalo del caso Morisi, il suo braccio destro e santone della propaganda, colui che lo ha reso celebre con l’appellativo “il Capitano”.

Di certo Salvini potrà tornare a Rosarno, provincia di Reggio Calabria. Nel paese noto per la baraccopoli dei braccianti africani Salvini ha mantenuto il consenso strepitoso dei tempi d’oro, totalizzando il 21 per cento di voti. Nella piazza della città intitolata al segretario locale del Pci ucciso dalla ‘ndrangheta, il capo della Lega aveva fatto un comizio a pochi giorni dalla chiusura del tour elettorale. Al suo fianco il candidato di Rosarno in corsa per l’assemblea regionale: Enzo Cusato, il consuocero del boss Bellocco, casato di mafia tra i più potenti della provincia.

C’è solo un altro posto in cui Salvini è stato premiato con ancora più voti, Gizzeria, provincia di Catanzaro. Qui a raccolto il 40 per cento di voti, con un sindaco che ha sostenuto la lista e che è molto chiacchierato per parentele, inchieste e sospetti dell’antimafia. Non bastano Rosarno e Gizzeria, però, ad addolcire il crollo di Matteo Salvini, che sulla Calabria si era giocato tutto consapevole della debolezza dei candidati a sindaco di Rome e Milano. Sulle elezioni regionali calabresi Salvini ha fatto il pokerista e giocato un “all-in” finito male. I voti persi non sono andati a Fratelli d’Italia ( passata dal 10 all’8 per cento), bensì ai moderati: qualche briciola a Coraggio Italia, il nuovo movimento di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, e molti di più a Forza Italia, che diventa primo partito in regione superando peraltro il partito democratico. 

Fronte del Nord

Se al sud non gioisce, al nord Salvini non può certo dirsi felice per come siano andati gli scrutini. A Varese, città natale della Lega Nord, il candidato leghista dovrà sfidare al ballottaggio ll sindaco uscente del Pd, Davide Galimberti. La partita giocata nel comune dei massimi dirigenti del partito della “padania” ha però un valore che trascende lo scontro tra centrodestra e centrosinistra. La resa dei conti è tutta interna alla Lega. Tra il partito nazionalista di Salvini e quello nordista di Giancarlo Giorgetti, vice segretario e ministro dello Sviluppo Economico, in sintonia con il federalista Roberto Maroni (pure lui di Varese). Senza dimenticare il convitato di pietra, Umberto Bossi, il fondatore che non ha mai gradito il partito sovranista di Salvini creato a sua immagine e somiglianza.

Il candidato della Lega è un nome di peso nella geografia interna del partito: Matteo Bianchi, braccio operativo di Giorgetti sul territorio e stimato da Maroni, l’ex presidente della regione Lombardia che ha rinunciato alla candidatura per problemi di salute. Salvini su Varese non ha messo bocca, questo è territorio di un’altra lega, della prima Lega Nord. Eppure anche qui la lista Lega Salvini premier ha preso il due punti in meno (14,74) rispetto alle scorse comunali, quasi mille voti persi. Il profilo di Bianchi mal si concilia con l’identikit del fedelissimo medio di Salvini piazzato nei dipartimenti della Lega. Bianchi, per esempio, è consigliere delegato della fondazione Italia-Usa e sappiamo quanto Giorgetti tenga a mantenere ottimi rapporti con gli Stati Uniti, a differenza di Salvini che aveva in Gianluca Savoini, leghista e fondatore dell’associazione Lombardia-Russia, l’ufficiale di collegamento per il dialogo con la federazione Russa di Vladimir Putin. «In via Bellerio (sede storica della Lega ndr) credono che vincerà Galimberti», dice una fonte interna al fronte nordista del partito, «sono terrorizzati anche perché sarebbe un risultato di Giorgetti più che di salvini, e in parte anche dell’ala maroniana che a Varese conta ancora, Matteo Bianchi è della vecchia guardia nordista, rimasto con Salvini per motivi di utilità più che di convinzione ideale». 

A Milano invece la sconfitta ha un responsabile e si chiama Salvini. La città in cui è stato consigliere comunale, dove si è fatto le ossa da militante padano, non lo ha premiato. Anzi, la lista nella coalizione a sostengo di Luca Bernardo sindaco ha totalizzato poco più di 48 mila voti, il 10,74 per cento. Cinque anni fa avevano votato per la Lega di Salvini 11mila milanesi in più. Di certo ha influito il balzo in avanti di Fratelli d’Italia che passa da un misero 2,42 (12mila voti) al quasi 9 per cento, quattro volte le preferenze incassate alle passate comunali. Il partito di Meloni ha eletto consigliere anche l’avvocata Chiara Valcepina, protagonista nell’inchiesta di Fanpage sui rapporti con i neofascisti: Valcepina nel video sfoggia un saluto romano insieme a Roberto Lavarini, etichettato dai due come «saluto Covid».

Lazio ultima speranza 

E poi c’è il centro. Roma e Latina restituiscono una certezza a Salvini: Claudio Durigon è una macchina di consenso, che resiste agli urti, agli scandali, alle figuracce. Durigon è l’ex sottosegretario che si è dimesso tra mille polemiche per le sue sparate su Mussolini e al centro di rapporti sospetti con personaggi legati ai clan. Che Salvini non avrebbre rinunciato davvero al capo della Lega laziale, con feudo a Latina, era chiaro fin dalle dimissioni di Durigon. Il suo successore al ministero dell’Economia non è infatti un leghista del Nord, ma un professionista vicino a Durigon, che ha costruito il suo consenso partendo dal sindacato Ugl. Consenso che ha portato in dote alla Lega e a Salvini. A Roma la lista ha preso più del 5 per cento, quasi 30mila voti in più rispetto alle precedenti amministrative. A Latina, città di Durigon e di altri leghisti (uno dei quali sotto inchiesta per voto di scambio con la mafia), il partito di Salvini è passato dal 4 per cento al 14. Nel nome di Durigon e del suo sistema di potere, l’ultima isola felice del capitano naufragato. 

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