«Il mondo ha perso la brocca, l’Europa occidentale dorme», dice Viktor Orbán. Meno male che «ci siamo noi in Ungheria a mettere fine a questa mania del genere». Oggi nel paese non si vota solo per le elezioni parlamentari, che hanno il valore di un referendum sulla permanenza al potere di Orbán. In concomitanza, e per volere del premier stesso, si tiene anche un “referendum” anti lgbt. In realtà è costruito come un sondaggio di opinione: non serve ad abrogare nessuna legge, semmai consolida una legge omofoba già in vigore dall’estate scorsa e sulla quale l’Ue ha avviato una procedura di infrazione. Dopo il referendum anti migranti del 2016, il premier ungherese ha individuato nella comunità lgbt il nuovo bersaglio, emulando quanto fatto in Polonia durante la campagna presidenziale dell’estate 2020.

Lo scopo di questo ennesimo referendum identitario è quello di incrinare il campo avversario, che ha orientamenti compositi, e di mobilitare la propria base elettorale contro un nuovo spauracchio.

Il voto anti lgbt è insomma funzionale all’altro referendum, quello sulla premiership di Orbán. Anche se non dovesse raggiungere il quorum, come è successo nel 2016 e come sperano l’opposizione e gli attivisti, in ogni caso la campagna omofoba di governo non sarà senza conseguenze.

“Protezione dei minori”

«Sei d’accordo a promuovere il cambiamento di sesso tra i minori? Pensi che i trattamenti per cambiare sesso debbano esser resi disponibili ai bambini? Vuoi che i media sottopongano ai minorenni contenuti sul cambiamento di genere?». Il referendum "sulla protezione dei minori” – questa è la denominazione ufficiale – vuole rinsaldare la «legge a tutela dei minori», e cioè un provvedimento che in origine doveva essere contro la pedofilia ma che Fidesz, il partito del premier, ha snaturato trasformandola in una legge anti lgbt. Riconosce solo la «famiglia tradizionale» e inserisce la censura dell’omosessualità nell’educazione dei minori; crea barriere verso le organizzazioni «con orientamenti discutibili» e quindi è anche una legge anti ong. Riguarda non solo l’educazione dei minori, ma anche i contenuti mediatici, le pubblicità che potrebbero capitar loro davanti. «L’effetto concreto di quella legge è stato creare un clima di paura e di autocensura», dice Áron Demeter di Amnesty Ungheria. Da quando è in vigore, «ci sono stati alcuni casi che hanno suscitato clamore mediatico: una serie tv, qualche libro, cartoni animati segnalati alle autorità. Ma noi registriamo anche le conseguenze più profonde e meno visibili: abbiamo da tempo programmi per i diritti umani da svolgere nelle scuole, e da quando c’è la legge le classi sono in declino».

La legge dice che per poter parlare di sessualità, un’organizzazione deve avere una licenza dal governo, ma «richiama a una ulteriore legge in materia che non è mai stata promulgata: il risultato è un limbo giuridico», dice Demeter. «Gli insegnanti e i presidi vivono nella paura di essere licenziati o avere problemi legali, quelli che ancora ci invitano a parlare di diritti lo fanno chiedendo di non dare pubblicità alla cosa».

Strumenti di propaganda

Stando ai dati, la società ungherese è tutt’altro che omofoba: una rilevazione svolta da Medián ad agosto rileva che i tre quarti degli intervistati (il 73 per cento) non condividono la propaganda del governo sul fatto che confrontarsi con persone omosessuali sia un danno per i ragazzini. «In Ungheria il movimento per i diritti lgbt è molto maturo e per anni questo è stato il paese dell’est Europa più avanzato in termini di diritti lgbt», dice Yuri Guaiana di All Out, che è a Budapest per sostenere gli attivisti ungheresi. «La caduta verticale è iniziata negli ultimi anni dell’èra Orbán». Le discrasie emergono nello stesso partito di governo, Fidesz: Jozsef Szajer, quarta tessera del partito e fedelissimo del premier da quando condividevano afflati liberali e studi a Oxford, nel 2011 contribuisce a riscrivere la costituzione ungherese, che nella nuova versione non riconosce le coppie gay; una decina di anni dopo viene sorpreso in un’orgia gay a Bruxelles e conduce una vita fuori dai riflettori, come una sorta di esiliato politico, sul lago Balaton.

Connessioni internazionali

Il 2021 è l’anno in cui il governo ungherese – non solo il premier ma anche la neoeletta presidente della repubblica Katalin Novak – utilizza l’argomento della difesa della famiglia tradizionale come l’elemento retorico fondante per stabilire connessioni con le destre populiste a livello europeo e internazionale: il leghista Lorenzo Fontana è tra i principali interlocutori di Novak su questo punto. La scelta di individuare nei temi lgbt il nuovo bersaglio propagandistico è una scelta che si fonda proprio su queste connessioni. «C’è una somiglianza tra la legge anti lgbt ungherese e quella di Putin del 2013», nota Áron Demeter di Amnesty, che ricorda anche le numerose partecipazioni di Novak «a eventi sulla famiglia finanziati da oligarchi russi». L’Ungheria a sua volta ha ispirato le realtà ultraconservatrici europee. Inizialmente è il premier ungherese a emulare la campagna presidenziale omofoba di Andrzej Duda, l’attuale presidente della repubblica polacco.

In seguito è il governo polacco a prendere esempio dalla legge anti lgbt ungherese di questa estate, e a introiettarla nella “Lex Czarnek", che prende il nome dal ministro dell’istruzione.

Quella legge, che in varie forme irregimenta il sistema scolastico, è ora congelata per il veto del presidente Duda: durante la guerra in Ucraina è lui il garante dei rapporti con Usa e Ue.

Effetti del referendum

Ora «la guerra è calata come una nebbia a coprire ogni cosa», parole del premier ungherese durante l’ultimo comizio elettorale. «Ma non dimentichiamoci del referendum». Tra le ragioni per le quali Orbán ha individuato proprio nei temi lgbt la sua nuova crociata politica, c’è la speranza che possano creare crepe nel campo di opposizione. Anche se ha fatto fronte comune per batterlo, è assai composito al suo interno. Jobbik, ad esempio, che tra i partiti che si sono alleati è quello più spostato a destra, quando la legge anti lgbt è stata presentata ha dato segni di tentennamento.

Ora in vista del voto la linea comune è quella di chiedere agli ungheresi di invalidare il voto, per evitare che il referendum raggiunga il quorum. Nel 2016 quasi la totalità dei votanti si è detta d’accordo che il piano europeo per la ricollocazione dei rifugiati (le “quote” per stato) andava respinto, ma l’opposizione ha disertato le urne e quindi il quorum non è stato raggiunto. Comunque con quel referendum è stato individuato un capro espiatorio, anzi due: i migranti e Bruxelles. 

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