Carlotta Cossutta, milanese, 38 anni, ricercatrice in Filosofia politica e attivista di Nonunadimeno, spiega che 8 marzo sarà quello di quest’anno, il primo dalla marea fucsia dei cortei del 25 novembre in nome di Giulia Cecchettin, la ventiduenne padovana uccisa dall’ex fidanzato. Prima una premessa: «Non pretendo di rappresentare il movimento, che è plurale e non necessariamente omogeneo».

Detto questo:«Nudm si organizza su nodi territoriali, ci saranno più di 40 manifestazioni in tutta Italia», risponde, «Sarà un 8 marzo particolare per molti motivi: è l’ottavo anno dello sciopero transfemminista, è diventato un appuntamento fisso e ha messo in moto un meccanismo che va oltre noi; è uno sciopero che viene dopo la grande mobilitazione segnata dal femminicidio di Giulia Cecchettin e dalle parole di sua sorella Elena sul patriarcato. Nudm è diventato una casa per la presa di coscienza politica. E noi sentiamo la responsabilità di dare spazio alla rabbia emersa in quell’occasione. E infine sarà uno sciopero transfemminista per Gaza, perché l’autodeterminazione delle donne va di pari passo con i processi di liberazione decoloniale che attraversano il mondo.

A Gaza Hamas usa lo stupro come arma di guerra contro le donne israeliane tenute in ostaggio.
Ogni guerra è la forma più alta di violenza patriarcale, in cui le forme di oppressione che come donne e soggetti Lgbtqia+ subiamo quotidianamente, vengono giustificate dai conflitti, in tutto il mondo. Qui in Italia chiediamo di non strumentalizzare le violenze che subiamo per logiche razziste e xenofobe. A Gaza nessuna violenza può giustificare un genocidio. Le violenze sessuali sulle detenute palestinesi da parte delle forze armate israeliane non suscita la stessa indignazione.

“Genocidio” non è la definizione sbagliata di ciò che succede a Gaza?
il Sudafrica alla Corte internazionale ha mostrato perché è possibile vedere in quello che succede a Gaza il rischio concreto di un genocidio.

Ma lei è solidale con le donne israeliane vittime di stupro?
Certo. Sono solidale con ogni donna stuprata.

Allo sciopero transfemminista partecipano i sindacati confederali?
Nonostante le parole di Maurizio Landini il 25 aprile, i sindacati confederali non hanno indetto lo sciopero, con l’eccezione, per la prima volta, della Flc della Cgil. Ma diversi settori della Cgil indicono lo sciopero regionale.

Cos’è uno sciopero transfemminista?
Serve a mettere in luce l’intima connessione fra il lavoro produttivo e quello riproduttivo e di cura che le donne e tutti i soggetti femminilizzati praticano ogni giorno.

Che chiede una sovversione strutturale dell’intera società. In concreto, le donne si astengono dal lavoro produttivo, per chi ce l’ha, e da tutto il lavoro non pagato che svolgono in maniera assai maggiore rispetto agli uomini. Per riprendersi il tempo: il lavoro di cura non ha orari, non ha pause, né mansioni riconosciute.

Il 25 novembre c’è stata la marea fuxia sull’onda della rabbia per l’omicidio Cecchettin. Ma i femminicidi non si sono fermati. Dopo i cortei è successo qualcosa?
I centri antiviolenza hanno ricevuto un incremento delle richieste di aiuto. Molte giovani si sono riconosciute nei messaggi che Giulia riceveva e mandava: hanno imparato da lì a dargli il nome della violenza. Che è il primo passaggio per combatterla.

Vi aspettavate una reazione diversa dalla politica?
Negli anni abbiamo imparato a non aspettarci molto dalla politica. Nel 2017 abbiamo scritto un piano femminista contro la violenza maschile sulle donne. Non c’è stato ancora interesse da parte della politica di fare i conti con la necessità di una trasformazione radicale dell’esistente.

C’è bisogno di leggi, sì, che finanzino i centri antiviolenza; che rinforzino l’uguaglianza nel mondo del lavoro; ma soprattutto c’è bisogno di un cambio di mentalità che metta al centro la violenza come chiave di lettura delle diseguaglianze e non come un’emergenza da risolvere con interventi spot.

Il vostro rapporto con la politica?
Chiediamo una trasformazione della società, ma anche dell’azione politica. Noi costruiamo partecipazione, non abbiamo bisogno di leader. Nei nostri nodi non si vota, si discute, moltissimo, fino a trovare una formulazione condivisa da tutte, sapendo che non siamo soggetti collettivi necessariamente omogenei.

Siamo un soggetto plurale, con parole d’ordine come minimi comuni denominatori. Dalla storia del femminismo abbiamo ereditato che il personale è politico e non si può pensare un’azione politica che non tenga tutte le nostre forme di vita.

Per voi non significa nulla una premier donna, la prima, e una leader del primo partito di opposizione?
Che piaccia o no anche a loro, sono entrambe prodotto di mezzo secolo di lotte femministe. Ma accedere al potere senza cambiarlo ci fa rimanere nel sistema patriarcale, non basta essere una donna per agire una trasformazione. Donne si diventa, ci insegna Simone De Beauvoir. Schlein si richiama al femminismo, ma il Pd in questi anni non è stato molto interessato alle istanze femministe.

Nessun partito vi rappresenta, nessuna vi rappresenta?
È così.

Chi è per voi Meloni?
L’emblema del femonazionalismo, cioè di quell’essere donna che rinforza la struttura patriarcale: dal ministero per la natalità all’utilizzo strumentale delle rivendicazioni femministe in chiave razzista e xenofoba, penso all’enfasi sulla natalità per riprodurre una nazione bianca o la complementarità di due sessi. E questo nonostante nella sua vita abbia fatto scelte differenti.

Una parte del femminismo “storico” non riconosce la vostra definizione di “generi”, e non viene nei vostri cortei.
 vero, c’è una differenza generazionale. Ma non solo. Fra noi c’è una differenza sulla definizione di donna: per me non è un’identità biologica e fissa. Me l’ha insegnato proprio il femminismo della differenza. Nel movimento ci sono anche donne e uomini trans, persone non binarie, soggettività che sfidano le norme patriarcali.

Su questo si sta consumando una frattura, per me dolorosa. Devo molto alla storia del femminismo italiano. Ma devo moltissimo a chi ci dice, come Monica Wittig, che è l’oppressione che crea il sesso, e non il contrario. Il transfemminismo si riconnette alla genealogia femminista, dunque potremmo tentare di conciliare alcuni ragionamenti. Ma altri no: dire che le trans non sono donne è irricevibile.

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