Alla fine Giorgia Meloni deve ingranare la quarta. Dopo le consultazioni-lampo, nel pomeriggio accetta un incarico «senza riserva» e «propone» a Sergio Mattarella, secondo la lettera della Costituzione, la lista dei ministri. Meloni va veloce: per fare una prova di forza con gli alleati, per esibire lo scettro del comando ai cittadini. Perché, dice, c’è «necessità di dare un nuovo governo nel minore tempo possibile».

La verità però è un’altra: le ultime quarantotto ore ha avuto la prova provata che ogni minuto in più di trattativa con gli alleati si trasformava in un grana in più, e in un inciampo sulla strada di palazzo Chigi. Per questo dopo l’ultima mina esplosa dentro Forza Italia (il secondo «audio» di Berlusconi), si è barricata per stendere la vera lista dei suoi ministri.

Se questo sarà lo stile della leadership, accentramento per insicurezza e diffidenza, è facile profetizzare guai.

Da questa solitudine, fossimo maliziosi diremmo autarchia, è partorita una lista di ministri mediocre. Più interessante è la lista dei ministeri, e cioè i nomi dei dicasteri, la neolingua a cui Meloni affida il compito di raccontare che sono arrivati i nazionalisti: così Adolfo Urso si ritrova ministro del Made in Italy anziché dello Sviluppo economico, Gilberto Pichetto Fratin dell’Ambiente e della sicurezza energetica, poi c’è il ministero della Natalità. Quello della “Sovranità alimentare” è affidato al cognato Francesco Lollobrigida (definizione in realtà ispirata a Emmanuel Macron). Ma le politiche che contano, e cioè quella economica, estera e europea, sono messe al sicuro della continuità: il Tesoro al leghista draghiano Giancarlo Giorgetti, gli Affari Ue a un dc naturale come Raffaele Fitto, la Farnesina a Antonio Tajani che dovrà ogni giorno dimostrare distanza dal filoputinismo del Cavaliere.

I pesi sono rispettati. Dieci ministri FdI, sei indipendenti, cinque leghisti e cinque forzisti, un vicepresidente ciascuno e uno scontento ciascuno: Salvini perché non ha ottenuto gli Interni, ma le infrastrutture e i porti (da cui potrà però fermare gli sbarchi dei migranti e le navi dei soccorritori); Berlusconi perché l’unico ministero di peso è affidato a Tajani, arcinemico della sua Licia Ronzulli. Salvini negli scorsi giorni ha trattenuto lo scontento. Berlusconi lo ha trattenuto solo venerdì. Ma i malumori torneranno.

Il cinema muto di Berlusconi

Nasce un esecutivo fragile, e lo si è visto dal mattino. Al Quirinale la consultazione del pattuglione della maggioranza dura solo sette minuti. Davanti a Mattarella parla solo Meloni, gli altri annuiscono. Il presidente asseconda la tendenza della leader a tacitare gli alleati per evitare che portino fin dentro il Quirinale la cacofonia della coalizione.

Berlusconi riesce a contenersi. Non ripete la scena del 2018, stavolta non parla. Lo ha promesso lui, lo hanno giurato i suoi. Malcerto sulle gambe, viene scortato a turno da Salvini o dal presidente dei deputati forzisti Cattaneo. Ma oltre al sostegno fisico si tratta di una sorveglianza speciale. Dunque tace. Ma in realtà parla con la mimica facciale. E la promessa di un futuro «interessante» (cit. Draghi) arriva con il cinema muto: sorride senza posa davanti ai cronisti per dimostrare di saperla lunga.

Alza un sopracciglio perplesso, in un gesto che diventa virale in rete, mentre Meloni dice che gli alleati l’hanno dato indicazione «unanime» per la sua presidenza del governo. Stamattina il giuramento. Da domani il principale problema della premier sarà tenere a bada gli alleati.

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