In una delle definizioni forse più celebri della Nato, una ventina d’anni fa lo storico inglese Michael Howard chiosò l’alleanza come un matrimonio infelice ma di successo: di successo, poiché si avvicina ormai a festeggiare il settantacinquesimo anniversario nell’apprezzamento generale dei suoi membri (un apprezzamento ovviamente enfatizzato in seguito all’aggressione russa dell’Ucraina); ma anche un matrimonio infelice, perché attraversato da fratture e tensioni tra gli alleati. Molte di queste sono state macroscopiche, come in occasione dello strappo successivo alla guerra in Iraq del 2003, o in seguito ai tweet infuocati di Donald Trump. Altre, per converso, non accendono il dibattito pubblico e non generano divisioni tali da innescare crisi diplomatiche, ma rappresentano un costante motivo di incertezza sulla sostenibilità dell’alleanza.

Gap di capacità

Il gap di capacità tra Stati Uniti e alleati occidentali è una di queste. Il problema, ridotto all’osso, consiste nella scarsa dotazione di strumenti militari dei paesi europei rispetto all’alleato americano. Si tratta di un dato di fatto difficilmente confutabile, sia in termini quantitativi, sia in termini qualitativi. Tale disparità nella dotazione bellica degli alleati è stata giudicata da molti come un ostacolo alla coesione dell’alleanza: soprattutto rispetto alle funzioni militari della Nato, le lacune europee impongono in ultima istanza di dover contare sull’impegno americano.

Rimanendo nella metafora del matrimonio, è come se uno degli sposi fosse ricchissimo e l’altro indigente: nel momento in cui quest’ultimo si trova ad affrontare spese straordinarie, non ha altra soluzione se non richiedere l’intervento del coniuge. Fuor di metafora, nessun problema fino a quando gli Stati Uniti saranno disposti a intervenire su richiesta dei membri europei dell’alleanza (come è avvenuto ad esempio in Bosnia e in Libia); o fintantoché questi ultimi saranno in grado di assistere le forze americane nelle operazioni più importanti per Washington (un caso su tutti: l’Afghanistan). Ma se le capacità europee risulteranno insoddisfacenti per Washington, o l’impegno americano andrà scemando, l’effetto divisivo del gap potrebbe minare la coesione dell’alleanza.

Traiettorie opposte

Vale quindi la pena discutere se e fino a che punto l’asimmetria che contraddistingue i rapporti transatlantici costituisca una fonte di instabilità per la Nato. Per procedere con ordine, occorre in primo luogo osservare come l’origine di questo gap risalga alla fondazione dell’alleanza, ma sia diventato una questione particolarmente sensibile in seguito all’evoluzione della postura strategica statunitense dopo la prima guerra in Iraq: l’operazione Desert storm, infatti, venne vista nei circoli della difesa americana come la dimostrazione delle potenzialità della tecnologia informatica nella condotta della guerra.

Per quanto contestabile potesse essere questa lezione, il Pentagono da quel momento si è impegnato in un profondo sforzo riformatore, volto in primo luogo a dotare le forze armate dei più sofisticati sistemi d’arma disponibili: una vera e propria rivoluzione negli affari militari, come veniva definita ai tempi, il cui obiettivo ultimo era dare ai conflitti armati un nuovo volto.

Dall’altra sponda dell’oceano Atlantico, invece, la traiettoria è stata sostanzialmente opposta. Gli stati europei, venuta meno la minaccia sovietica, non hanno esitato a incassare il loro “dividendo della pace”, ovvero la possibilità di ridurre le spese per la difesa. In retrospettiva, questa scelta non era affatto irrazionale: in assenza di minacce dirette all’Europa occidentale, la prima priorità era adattare lo strumento militare a un contesto della sicurezza in cui la sfida più grave (e più probabile) era rappresentata da guerre civili e instabilità regionale.

Il risultato fu che, nello stesso periodo in cui gli Stati Uniti investivano nella rivoluzione negli affari militari, gli altri alleati riducevano i bilanci della difesa, chiudevano le caserme e, come nel caso dell’Italia, si impegnavano a passare da un sistema basato sulla coscrizione a un esercito di soli professionisti.

Il tema del gap di capacità rimase sostanzialmente circoscritto ai circoli militari e all’accademia fino al 1999, quando la guerra in Kosovo espose nel modo più evidente le implicazioni di questo divario. La missione Forza alleata rappresentò un’occasione ideale nella prospettiva di Washington per utilizzare sul campo le capacità altamente tecnologiche e le dottrine d’impiego della rivoluzione negli affari militari. E il successo dell’operazione, il danno collaterale limitato e l’assenza di perdite non fecero altro che confermare le convinzioni dominanti al Pentagono; per gli alleati europei, invece, fu un preoccupante campanello d’allarme, poiché vennero esposte tutte le lacune in aree critiche come il trasporto strategico, il munizionamento di precisione e il coordinamento delle forze.

Sulla scia di questa lezione, a partire dai primi anni Duemila, si è assistito a un certo attivismo nelle capitali europee finalizzato a incrementare le proprie capacità, ma con risultati tutt’altro che soddisfacenti: come visto ad esempio nell’operazione Unified protector in Libia, gran parte dei problemi tradizionali non ha mancato di presentarsi.

Non stupisce quindi che, in ambito Nato, il discorso relativo al gap di capacità sia stato declinato nei termini del burden sharing con gli Stati Uniti, dell’impegno ad allocare almeno il 2 per cento del Pil in spese militari, e di una presunta autonomia strategica europea.

Gestire il divario

Alla luce di queste considerazioni, si potrebbe concludere che il gap di capacità sia un problema insormontabile che mina la stabilità futura della Nato. Vale però la pena sollevare alcune considerazioni di senso opposto, poiché questo stato delle cose non è necessariamente nocivo per l’alleanza e potrebbe anzi essere sfruttato come una risorsa. Detto in altri termini, la soluzione al problema non consiste nel colmare il divario, ma nel gestirlo.

Da una parte, infatti, lo sforzo necessario per raggiungere una qualche parità con gli Stati Uniti sarebbe insostenibile per tutti i paesi europei, nessuno escluso. D’altra parte, Stati Uniti ed Europa hanno ruoli diversi nel sistema internazionale: Washington è leader egemonico, per quanto contestato, mentre le capitali europee rappresentano medie potenze. Gli interessi americani sono quindi globali, come naturale per la potenza dominante in un sistema unipolare, mentre quelli europei hanno un raggio poco più che regionale. Dotare l’Europa dei mezzi necessari a eguagliare l’America, insomma, sarebbe più negli interessi americani che in quelli del vecchio continente.

Lo sforzo europeo, quindi, non dovrebbe essere rivolto a eliminare tutte le deficienze rispetto al potente alleato, ma a ricompensare gli Stati Uniti per l’impegno che viene richiesto. Detto altrimenti, fare in modo che sia nell’interesse degli Stati Uniti continuare a fornire la garanzia di sicurezza da cui l’Europa dipende. In quest’ottica, paradossalmente, uno sforzo volto a eguagliare le capacità americane non è la ricetta migliore. Quello che può risultare più utile per Washington è la promessa di una divisione del lavoro nella gestione dell’ordine internazionale. Ad esempio, se gli Stati Uniti sono senza pari quando si tratta di conflitti ad alta intensità, non altrettanto si può dire per le operazioni a bassa intensità – missioni in cui gli stati europei hanno mostrato un maggiore impegno e buone capacità.

Se si vogliono incrementare le risorse europee, quindi, pare più promettente focalizzare lo sforzo su alcune funzioni e/o aree geografiche circoscritte, come la difesa territoriale e le operazioni di mantenimento della pace. Difficilmente potrebbero giovare capacità volte a combattere conflitti ad alta intensità in teatri lontani dal contesto europeo. Questo dovrebbe permettere alle forze armate del vecchio continente di concentrare le proprie limitate risorse su pochi scenari di conflitto, così da limitare la propria dipendenza dagli Stati Uniti e, cosa più importante, contribuire attivamente a stabilizzare l’ordine internazionale.

Il matrimonio su cui si fonda la Nato, in conclusione, non deve essere necessariamente felice, ma deve risultare utile per entrambe le parti. E perché questo avvenga Stati Uniti ed Europa devono essere in grado di aiutarsi nelle aree in cui sono relativamente più capaci. Anziché ridurre le differenze, insomma, vale la pena sfruttare le complementarietà tra le due sponde dell’Atlantico.

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