Port Sudan non si aspettava di diventare capitale ma la guerra civile scoppiata un anno fa ha cambiato il suo destino. La cittadina sul mar Rosso, che non arrivava al mezzo milione di abitanti, è stata scelta dalle autorità sudanesi per riallocarvi in tutta fretta presidenza e ministeri.

Ora per le strade girano tanti soldati e davanti ai palazzi occupati dal governo, si vedono blindati e “tecniche” (le Toyota con dietro la mitragliatrice) a cui gli abitanti non sono abituati.

La capitale Khartoum è divenuta inagibile da quando l’aspro scontro tra l’esercito regolare del presidente al Buhran e le milizie di supporto rapido (Rsf) del suo rivale, l’ex vicepresidente Dagalo detto Hemmetti, l’hanno trasformata in un micidiale campo di battaglia.

La devastazione

La grande città sul Nilo è ora semi-irraggiungibile, il centro è distrutto, molti palazzi, scuole, università e ospedali saccheggiati. Le forze Hemmetti hanno messo in rotta l’esercito da molte zone cittadine, nascondendosi nei quartieri popolari in mezzo alla popolazione, senza tener conto dei danni che venivano inflitti ai civili.

Degli otto milioni anteguerra, la popolazione della capitale si è forse dimezzata e chi resta è ostaggio delle endemiche violenze e dei bombardamenti che proseguono. Esercito e Rsf reciprocamente si accusano di atrocità, stupri e massacri. Da un mese a Khartoum manca l’energia elettrica e solo chi riesce a procurarsi a peso d’oro un po’ di carburante riesce a far funzionare i generatori. Le forze contrapposte occupano i quartieri a pelle di leopardo e la città è quasi del tutto isolata dal resto del paese.

Per rifornire il proprio ospedale, Emergency compie lunghi giri per aree desertiche giungendo da nord e evitando le vie principali sotto controllo delle fazioni in guerra. Entrambi i campi utilizzano come alleati milizie etniche locali che controllano quasi per niente. Le agenzie umanitarie sostengono che nell’immenso paese (il terzo più esteso del continente) ci sono non meno di otto milioni di sfollati interni che vanno ad ingrossare improvvisati campi profughi, anche se la maggioranza dei fuggiaschi trova ospitalità nelle case.

Alcuni – forse 300mila – sono arrivati a Port Sudan ma la maggior parte è dispersa tra le altre cittadine o cerca di fuggire in Egitto e Sud Sudan.

Un hub commerciale

Il tempo è ancora mite in questa fine aprile ma Port Sudan è famosa per il calore estivo, non meno di 45 gradi in media. In passato c’erano dei resort per gli sport marini, non rinomati come quelli egiziani e dei quali restano fatiscenti cartelli pubblicitari.

Soprattutto la città serviva come hub commerciale ed energetico per Khartoum e per tutto il paese: qui giunge il pipeline che trasporta il petrolio estratto in Sud Sudan, ora interrotto e danneggiato; qui sbarcavano le merci e le derrate alimentari per tutto il paese. Il Sudan è per molta parte arido e semidesertico: nutrire la popolazione è una scommessa in tempi normali, figurarsi in quelli di guerra.

Spostandosi qui il governo si è creato una via di uscita ma paradossalmente il conflitto ha ridotto il ruolo della città portuale: le navi che attraccano sono poche (se ne vede una piccola della Msc) e le grandi gru per containers restano immobili. Soprattutto il porto sud che copre un’area più estesa della città stessa, da un’impressione distopica: pochissime navi alla fonda, migliaia di camion fermi sotto il sole, depositi vuoti, quasi nessuno in giro.

Al brutale rallentamento contribuisce la crisi attorno allo stretto di Bab el Mandeb dove gli Houti continuano a lanciare attacchi alle navi commerciali di passaggio. Molte compagnie di navigazione scelgono ormai il percorso lungo attorno all’Africa e quasi più nessuno risale il Mar Rosso passando davanti al Sudan.

La storia

La città ha una storia particolare: si vedono diverse chiese e meno moschee rispetto ad altri centri sudanesi; il muezzin quasi non si sente.

Nel quartiere del centro funziona un “Coptic Club” per i pochi rimasti, vestigia del tempo in cui fiorivano le comunità armena, copta, greca ed europea in genere. Con la guerra molti cristiani orientali sono riparati in Egitto mentre i cattolici per ora rimangono, stretti attorno ai padri comboniani e alle missionarie della carità, le suore di madre Teresa. La sera la gente si raduna a passeggiare sulla “corniche” che dà sul porto commerciale, dove si accendono le povere luci di ristorantini e banchetti da asporto.

I negoziati non procedono

Sul piano politico le posizioni paiono congelate: a gennaio scorso le Rsf hanno compiuto un’inattesa avanzata nella Gezira, la zona fertile del paese a sud di Khartoum, minacciando la costa ma poi si sono arrestate per mancanza di logistica. Due mesi dopo il governo ha reagito riprendendo l’iniziativa durante il mese di Ramadan, e ha recuperato quasi tutta Omdurman, la parte meridionale della capitale, sede tra l’altro della TV e della radio nazionali. Anche el Fasher, la città capoluogo del Nord Darfur, regge l’urto delle Rsf pur rimanendo circondata, mentre Nyala e Genina sono sotto controllo Rsf come gran parte del Kordofan. Dopo la debacle dei primi mesi in cui sembrava che nulla potesse arrestare l’offensiva di Hemmetti, ora il clima è cambiato e a Port Sudan si susseguono brevi parate militari con cortei di blindati e tecniche piene di militari che inneggiano al governo bloccando il traffico cittadino. I dialoghi tentati da Arabia Saudita e Usa non procedono: il governo chiede che le Rsf ottemperino alla “dichiarazione di Gedda” firmata da entrambi a maggio del 2023 in cui era inserito un impegno al ritiro sule posizioni di partenza. Ora Hemmetti sostiene che quella firma non ha più valore e che la situazione sul terreno è cambiata. Dal canto suo la comunità internazionale è confusa: sia i paesi arabi che quelli occidentali si dividono tra le due parti e non si riesce a elaborare un piano congiunto.

È evidente che interessi contrapposti (manifesti e nascosti) bloccano una soluzione politica alla quale entrambi gli avversari pur si dicono disponibili. Le agenzie umanitarie si danno da fare per distribuire aiuti ma la maggior parte del paese resta inaccessibile. Sono tempi difficili per il Sudan e tutti temono che, senza un accordo, il paese resterà diviso in pezzi, preda di una violenza diffusa senza fine.

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