Il deputato Oleg Matveychev potrebbe essere il personaggio surreale di certi romanzi russi. È membro di Russia unita, il partito di Putin. Ha una biografia che inizia con la laurea in filosofia su Hegel alla università degli Urali, che prosegue dentro la amministrazione presidenziale e che oggi lo vede numero due nel Comitato per l’informazione, le tecnologie e le comunicazioni alla Duma.

E’sicuramente una mente brillante, instancabile, e non disprezza i riflettori televisivi e le praterie digitali. I suoi interventi spaziano da Solzenicyn, i miti sulla corruzione, le guerre dell’informazione nel ventunesimo secolo, la Cina all’incrocio del millennio, la primavera della Crimea, la sovranità dello spirito, i problemi della manipolazione, il concetto di schiavitù in Aristotele, fino alle origini della filosofia greca antica in Russia.

Alcune settimane fa il membro della Duma ha dichiarato in un dibattito pubblico e anche in una intervista alla agenzia Ria che la Russia dovrebbe riportare la sua autorità sulla piccola enclave di Fort Ross, in California, e sulla ben più estesa Alaska, venduta dallo zar agli americani nel lontano 1867 e non conquistata da loro militarmente.

In questo modo verrebbero compensati i danni causati oggi dalle sanzioni economiche imposte dall’Occidente dopo l’aggressione alla Ucraina. I dettagli concreti su come attuare questa riconquista tardiva non sono noti.

Assieme all’Alaska anche l’Antartide dovrebbe essere riconosciuto come territorio russo, considerando che fu avvistato da Fabian von Bellingshausen, in missione per conto dello zar, il 27 gennaio 1820. Scoperta in verità rimasta oscurata per alcuni decenni da una traduzione errata del suo giornale di bordo.

L’antagonista inglese era arrivato tre giorni dopo, vicino ma sempre secondo. La rigorosa agenzia Tass consultata su questo recupero dell’Alaska precisa, dopo alcune ore, che i suoi cronisti non hanno scritto nulla al riguardo.

Tuttavia Matveychev non è uno dei tanti pugilatori verbali che le televisioni rincorrono ovunque in giro per il mondo, lui è sempre il numero due nella Commissione per l’informazione nel parlamento, un controllore della propaganda russa.

Nella bolla della propaganda 

Sergio Pitamitz

Oggi la guerra si chiama “operazione militare speciale”, alla parata imponente del 9 maggio per celebrare la vittoria contro il nazismo mancava il capo di stato maggiore delle forze armate, cioè il militare russo più alto in grado, senza alcuna spiegazione per  questa assenza, e certi ragazzini imbalsamati con il microfono in mano che intervistano i commentatori più patriottici sono la nuova edizione dei pionieri sovietici, ma senza il fazzoletto rosso al collo.

Il deputato Oleg può propagandare il recupero dell’Alaska e dell’Antartide, suggestionare gli animi semplici, e annunciare scenari punitivi apocalittici per l’Occidente, con città in Europa dove gli islamici trapiantati riusciranno ad imporre la sharia. Fino a quando “Tutto sarà roseo, meraviglioso…e sconfiggeremo tutti”.

Anni fa aveva proposto di raccogliere in una piazza gli oppositori politici, di farli circondare dai carri armati e così risolvere il problema come era successo a piazza Tienanmen.

Nei suoi calcoli questa operazione avrebbe prodotto una crescita economica del 10 per cento. Ma forse queste e le dichiarazioni sull’Alaska sono destinate solamente al pubblico interno. Perché con questi criteri dialettici e retroattivi anche i nemici di Mosca potrebbero avanzare richieste allarmanti.

Effetto crisi climatica

Invece è lo scioglimento concreto dei ghiacci, più della propaganda, che spinge inevitabilmente in primo piano l’Alaska. Due anni fa i pescherecci americani nello stretto di Bering furono rudemente avvertiti da navi e aerei russi che stavano navigando vicino a un sottomarino, che lì sarebbero stati lanciati dei missili, che erano finiti in una zona di esercitazioni militari.

Non era il primo contatto involontario. Un anno dopo la flotta russa del Baltico aveva invitato osservatori stranieri a visitare la base di Trefoil. Lì era stata misurata la nuova realtà dopo trenta anni di temperature in costante aumento.

La crosta del ghiaccio in estate si è ridotta di un terzo, di conseguenza la Russia oggi si ritrova con il confine di gran lunga più esteso nell’Artico rispetto agli altri stati che si affacciano sulla zona. Al Cremlino la frontiera spesso è stata confusa con il fronte militare.

Così attorno a Trefoil il numero delle navi da guerra russe salirà di almeno il venti per cento. Assieme a un programma, vietato a occhi stranieri, per addestrare foche e balene incaricate di raccogliere dati in competizione con i droni.

Parallelamente il disgelo ha aperto una nuova rotta mercantile attraente, più breve, tra Europa e Asia. Dovrebbe restare aperta almeno otto mesi l’anno, ridurre i tempi di navigazione del 40 per cento, e del 20 per cento l’effetto serra rispetto alla navigazione via Suez. Una rotta a pedaggio, per i piloti e i rompighiaccio russi da ingaggiare.

La Cina artica

Anche la Cina vuole entrare nella partita, si definisce volonterosamente “paese del vicino Artico”, qualifica vacillante sul piano geografico. Ma i progetti cinesi si misurano sempre su tempi lunghi. L’Istituto di ricerca polare era stato creato a Shanghai nel 1989, lo stesso anno della rivolta a piazza Tienanmen. Pochi anni dopo gli eredi di Mao avevano ordinato ai cantieri navali di Kiev il loro primo rompighiaccio. Era lo stesso periodo in cui, con una nuova legge sulle acque territoriali totalmente trascurata all’estero,veniva avviata la politica di espansione nel Mar cinese meridionale.

L’isola di Hainan, il punto più a sud della intera Cina, veniva definita “portaerei terrestre” e da lì, a puntate regolari, è stato allestito l’apparato imponente e provocatorio di basi e mezzi navali che oggi è sotto gli occhi di tutti in estremo oriente.

Dopo il rompighiaccio Drago delle nevi era comparsa anche una stazione meteorologica cinese  oltre il circolo polare artico, ospitata in territorio norvegese, alle isole Svalbard, le terre abitate più a nord del pianeta, dove i cartelli stradali indicavano l’obbligo di portare un fucile contro l’orso bianco e dove la governatrice dava appuntamento alle quattro di mattina, nell’estate senza notte.

Per i luoghi che allora si raggiungevano in auto oggi serve una barca. A tremila metri di altezza qui in luglio è arrivata la pioggia, non più fiocchi bianchi. E per certe competizioni sportive servono i cannoni da neve.  

Nel frattempo i progetti geopolitici di Pechino sono passati  dall’approdo norvegese alla più docile Islanda. Ma il vero balzo cinese verso il Polo e l’Artico avviene con Mosca, con le sue risorse di gas nella penisola di Iamal quando nel 2014 scattano le sanzioni occidentali dopo l’annessione della Crimea.

Pechino attinge più di altri concorrenti alla energia polare pulita, fornendo in cambio finanziamenti e tecnologia. E negli anni successivi gli ideogrammi compaiono in Groenlandia, regione autonoma della Danimarca.

Qui, dopo vari tentativi di gestire approdi navali o aerei, i cinesi riescono a garantirsi tutta la produzione locale di terre rare e di uranio, in uno dei bacini più ricchi del pianeta. Ma anche qui arrivano i racconti della rapacità con cui Pechino sfrutta le risorse in Africa e in altri paesi arretrati.

Quasi due secoli dopo è la nuova edizione della corsa all’oro sostituito dal litio e dalle altre terre rare, la nuova ricerca del passaggio a nord ovest abbellita con la formula letteraria “via della seta sul ghiaccio”.

Nostalgia imperiale 

This 2016 photo provided by the U.S. Navy, shows a base camp for submarine sea ice exercises in the Beaufort Sea off Alaska's north coast. The U.S. Navy has kicked off biennial submarine testing and training under sea ice off Alaska's north coast--the exercises are dubbed Ice Exercise 2018, or ICEX18, and will include maneuvers by three submarines under Arctic ice, including a British vessel, over five weeks. (U.S. Navy via AP)

La nostalgia imperiale per l’Alaska non può comunque dominare la mutazione profonda nel mondo dei ghiacci. I castori hanno avviato la loro colonizzazione aiutati dal verde di una inedita vegetazione. Secondo l’Accademia delle scienze russe in 23 città della Siberia l’inquinamento dell’aria e dell’acqua è fuori controllo, arrivando a superare anche cento volte i limiti fissati.

Le acque nella repubblica di Tuva, dove Vladimir Putin si è fatto fotografare nella natura selvaggia, sono inquinate al 67 per cento. Alle isole Svalbard c’è una città mineraria abbandonata, Pyramiden. Lì c’era una colonia russa di un migliaio di persone secondo un trattato di un secolo fa.

Era già iniziata l’epoca sovietica. Nessuna autorità ha venduto nulla agli stranieri. Ma a Pyramiden oggi è rimasta solo una minuscola comunità. Russi e ucraini.

Non riesco a comunicare con l’albergo che li ospita. Anche il discendente dell’ultimo governatore russo dell’Alaska, conosciuto bene ai tempi di Gorbaciov, non è raggiungibile. Restano i proclami del deputato Matveychev.      

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