L’argomento dell’inevitabilità dei candidati alle presidenziali americane del prossimo novembre fa spesso sbadigliare anche gli addetti ai lavori. Certo, tra le file dei fan scalmanati di Donald Trump c’è entusiasmo. Ma al di fuori del mondo Maga il voto viene vissuto come una scelta difficile tra due proposte vecchie e indigeribili. Soprattutto alla luce delle conclusioni contenute nel report del procuratore speciale Robert Hur, che definiscono il presidente Joe Biden come «un amabile anziano con una scarsa memoria».

E viene quasi da sorridere pensando alle polemiche del passato. Nel 1956 il presidente Dwight D. Eisenhower veniva considerato a rischio per un delicato intervento al cuore all’età di sessantasei anni. Mentre Ronald Reagan, nel 1980, scherzava sui suoi sessantanove anni.

Oggi Biden va verso gli ottantadue anni e Trump, a giugno, ne compirà settantotto, la stessa età del suo rivale nel 2020. Non stupisce quindi che si cominci a parlare di “gerontocrazia americana”. Per riuscire a capire come la politica si sia involuta a questo punto, abbiamo fatto qualche domanda al decano del giornalismo politico americano Michael Barone, classe 1944, editorialista del giornale conservatore Washington Examiner e coautore, dal 1972, dell’Almanac of American Politics, un compendio che ogni due anni analizza tutti i distretti del Congresso e traccia un profilo di ogni politico eletto negli Stati Uniti, dai governatori ai deputati locali, senza dimenticare i dati demografici ed economici dei cinquanta stati.

Pur avendo iniziato a seguire le campagne presidenziali nel 1972 (all’epoca sosteneva il candidato democratico progressista, George McGovern, facilmente sconfitto dal presidente in carica, il repubblicano Richard Nixon), Barone «non ricorda assolutamente» una campagna elettorale così priva di energia e di impegno dei militanti.

Candidati impopolari

La domanda che stupisce gli osservatori esterni è come mai dei candidati così impopolari stiano per ricevere la nomination con relativa facilità. Partendo da Biden, per Barone la ragione è semplice: «I democratici non hanno nessuna buona alternativa in mente, tantomeno la vicepresidente Kamal Harris».

Ieri il Wall Street Journal ha pubblicato un’intervista, realizzata due giorni prima della pubblicazione del rapporto di Hur, in cui Harris dice di essere «pronta a servire». Ma per Barone l’establishment democratico si è convinto che «per vincere basti essere un’alternativa a Trump. Certo, ha funzionato una volta. Ma la volta precedente l’azzardo è fallito». Riferimento all’eccessiva sicurezza dello staff di Hillary Clinton nell’affrontare la sfida con Trump nel 2016.

Viceversa, la presa di The Donald sul suo partito è assoluta. Anche se c’è un elemento che potrebbe fermarlo: «Un grave e visibile problema di salute». E nient’altro? Secondo Barone, no, esclusa la morte improvvisa. Niente da fare anche per Nikki Haley, ex governatrice del South Carolina ed ex ambasciatrice presso le Nazioni unite, che si ostina a rimanere in corsa nonostante l’intera leadership dei repubblicani alla Camera dei Rappresentanti abbia già deciso di sostenere l’ex presidente.

«Per lei c’è sempre il 2028», dice Barone, che aggiunge: «Non c’è nessun evento in agenda e nessun segmento politico-ideologico da cui ottenere nuovi finanziamenti e una buona copertura mediatica». Qualora però Trump vinca, non bisogna pensare che abbia davanti a sé una strada spianata e che la sua agenda venga approvata a spron battuto, nemmeno in caso di doppia maggioranza a Camera e Senato.

«I repubblicani non sanno governare con successo», dice l’editorialista, rimandando agli eventi di queste settimane e alle guerre che scuotono i gruppi congressuali, che difficilmente riescono a trovare un’unità d’intenti su qualsiasi argomento che non sia il sostegno a Trump, ma aggiunge: «Nel quadriennio trumpiano sono riusciti a ottenere dei risultati, ma mi sembra proprio che la situazione sia generalmente peggiorata».

I terzi partiti

Con un simile quadro si potrebbe pensare che a novembre ci sarà un ottimo risultato dei terzi partiti. A cominciare dal candidato che presenterà la misteriosa organizzazione No Labels passando per l’indipendente Robert Kennedy Junior, membro della storica dinastia politica e noto attivista No-vax. Invece, a suo avviso, nulla di tutto questo accadrà: «Queste due candidature si dissolveranno man mano che passerà il tempo».

Barone inizia ad analizzare No Labels: «Si tratta di un gruppo che si rivolge a un elettorato culturalmente progressista ma che ha un approccio conservatore alla fisco e alla tassazione, un blocco piccolo rispetto ad altri. Non solo: data la presenza di Trump, questo segmento demografico è propenso a votare Joe Biden a naso turato».

Diverso invece il caso dell’ultimo esponente dei Kennedy: «Senz’altro è un candidato strano e imprevedibile, ma non lo vedo prendere quota nell’opinione pubblica. Devo però dire che trovo assai discutibile che la Casa Bianca non gli abbia garantito la protezione dei servizi segreti. Non dobbiamo dimenticarci che suo padre è stato assassinato proprio durante una campagna elettorale, quella del 1968». In conclusione, nonostante le loro debolezze, Biden e Trump vanno verso una sfida forse ancora più polarizzante di quella del 2020. Per parafrasare una massima di Winston Churchill, i due candidati sono i peggiori, escluse tutte le altre alternative.

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