Il giudizio universale che papa Francesco ha voluto contro il cardinale Angelo Becciu, alcuni dipendenti della segreteria di Stato come Fabrizio Tirabassi e uomini d’affari che avrebbero lucrato milioni truffando il Vaticano, va avanti da qualche mese.

Davanti al giudice che tutto deciderà, il presidente del collegio Giuseppe Pignatone, i promotori di giustizia (guidati dall’avvocato Alessandro Diddi) stanno elencando le accuse e sentendo imputati eccellenti. Cercando ancora prove che permettano di supportare la tesi accusatoria: ossia che nello scandalo del palazzo di Sloane Avenue a Londra, comprato dal Vaticano per circa 350 milioni di euro e da poco svenduto a meno di 200, Gianluigi Torzi, il finanziere Raffaele Mincione e il banchiere che per decenni ha gestito (attraverso Credit Suisse) i fondi della segreteria di Stato, Enrico Crasso, avrebbero drenato illegalmente somme di denaro, creando un buco nelle casse della Santa sede.

Finora le critiche maggiori all’impianto accusatorio erano basate sull’assenza, nelle carte, di chiari passaggi di soldi tra gli imputati. «Manca la tangente, manca la pistola fumante», ripetono da tempo gli avvocati difensori. Un mese fa, però, nell’interrogatorio a Crasso, c’è stata una prima svolta. Che può segnare un cambio di passo nel processo, le cui udienze riprenderanno nelle prossime ore.

Triangolazioni

Il 30 maggio scorso, mentre il finanziere ex Credit Suisse provava a controbattere su tutta la linea, Diddi ha chiesto a bruciapelo a Crasso dei suoi rapporti con la Aspigam International di Dubai e l’omonima Aspigam Advisory di Panama. Due società estere di cui è socio Ivan Simetovic. Un broker di San Marino di cui Domani aveva già parlato nel 2020 perché – secondo quanto riferito da Mincione – aveva ricevuto attraverso la Aspigam di Dubai 500mila euro come ricompensa («una origination fee») per aver permesso al fondo Athena di Mincione di entrare in contatto con dirigenti della Credit Suisse, tra cui lo stesso Crasso. Incontri decisivi che permetteranno al finanziere di fare business con il Vaticano.

Ora però gli investigatori della gendarmeria ipotizzano che proprio la Aspigam di Simetovic (che non è indagato) possa essere stata usata per passare milioni di euro dal fondo di Mincione a una sconosciuta srl di Crasso che gli inquirenti hanno trovato nella Repubblica Domenicana, la Divanda Investment. E che lo stesso Crasso (imputato per corruzione) possa aver poi pagato altri funzionari compiacenti della segreteria di Stato.

La nuova pista parte da alcune dichiarazioni fatte agli investigatori da Torzi e da un personaggio finora rimasto nell’ombra che ha avuto un ruolo importante grazie alla sua testimonianza. Si tratta di Fabio Perugia, esperto di relazioni istituzionali ed ex portavoce della comunità ebraica di Roma, sentito come persona informata sui fatti due anni fa in merito ai suoi rapporti con Torzi, a quelli con l’amico di papa Francesco Giuseppe Milanese e alcuni broker “rivali” di Crasso, come Alessandro Noceti e Lorenzo Vangelisti del gruppo Valeur.

Gli interrogatori

Torzi è il primo a ventilare l’esistenza di presunte tangenti. «Tirabassi mi ha raccontato che tramite Andrea Negri (dirigente di Credite Suisse Uk, ndr) venivano incassate delle commissioni su una società avente sede a Dubai, che poi questa provvedeva a suddividerle tra Crasso e Tirabassi... Sempre a detta di Tirabassi, a un certo punto Mincione non ha più versato queste commissioni alla società di Dubai, e anche per questa ragione sarebbe sorto il problema d’interrompere i rapporti con Mincione».

Perugia viene invece chiamato a deporre perché qualcuno degli investigatori si ricorda che a fine 2017 il lobbista aveva contattato un suo amico gendarme, Costanzo Alessandrini, per manifestare il proprio disappunto in merito ad alcuni comportamenti di Tirabassi, allora potente funzionario della segreteria di Stato che sovrintendeva agli investimenti. Perugia al tempo lavorava infatti come consulente di Valeur group, e aveva provato più volte a proporre business a Tirabassi e monsignor Alberto Perlasca. Affari «che nonostante la loro precisione e fattibilità – dice Perugia – non venivano mai presi in considerazione», lasciando quelli di Valeur a bocca asciutta. Perugia in pratica aveva avvertito il Vaticano dell’esistenza di un problema interno anni prima dell’inizio dell’inchiesta, e quindi viene risentito per confermare quanto detto.

Il comunicatore, a verbale, ammette sì di conoscere Torzi («me l’ha presentato Valerio Veltroni, fratello del sindaco Walter, quando si occupava di cartolarizzazione dei crediti sanitari»), ma poi aggiunge: «Venni a sapere da Noceti, ex dipendente di Credit Suisse, e Vangelisti, ad di Valeur, che esisteva un asse tra Tirabassi e Crasso, in forza del quale Tirabassi indirizzava gli investimenti della segreteria di Stato verso Credit Suisse e, a fronte di ciò, Tirabassi otteneva delle fee».

Attuale portavoce per l’Italia del Congresso ebraico mondiale, Perugia è stato interrogato a luglio del 2020, due mesi prima che l’Espresso desse conto dell’inchiesta su Becciu con un articolo di Massimiliano Coccia. Per la cronaca, Perugia e Coccia si conoscevano da tempo grazie alle frequentazioni comuni nella comunità ebraica.

Molti in Vaticano pensano che sia stato proprio Perugia a girare al settimanale le prime informazioni sull’inchiesta su Becciu. «Non è andata esattamente così», taglia corto Perugia.

Le accuse dei gendarmi

Torniamo all’inchiesta. Gli interrogatori di Perugia e Torzi convincono gli investigatori ad approfondire l’esistenza di commissioni estere tra gli indagati.

Ad aprile 2021, dopo mesi di lavoro e rogatorie internazionali, i gendarmi scrivono: «Le evidenze investigative hanno confermato l’esistenza di rapporti economici tra Mincione, originatore dei flussi monetari, ed Enrico Crasso, del figlio Andrea Crasso, Alessandro Noceti e, verosimilmente, Andrea Negri e Giuliano Cislaghi, percipienti di tali flussi».

Secondo la nota, finora rimasta inedita, i soldi partirebbero dal fondo Athena Capital Fund con sede in Lussemburgo (quello in cui ha investito il Vaticano per comprare il palazzo, ndr) che fa capo a Mincione, per fare tappa intermedia alla Aspigam Dubai di Simetovic. Poi proseguono «verso altri soggetti, tra cui è stata individuata la società Divanda (il cui direttore è Andrea Crasso, figlio di Enrico, ndr) che fa capo a Crasso».

Esaminando il contenuto dei device sequestrati a Mincione, gli investigatori scoprono infatti l’esistenza di alcune mail e di un contratto (datato 2015) tra Athena e Aspigam. «Nelle premesse si indica che Aspigam ha introdotto un investitore che ha investito la somma di 200 milioni di dollari Usa nel fondo Athena: è evidente che per investitore non si può che intendere la segreteria di Stato», sostengono i gendarmi. «L’oggetto delle prestazioni è che Aspigam Dubai informi Athena di ogni fatto conosciuto che potrebbe riguardare la segreteria di Stato». Simetovic incassa da Athena inizialmente 308mila dollari, e poi una commissione periodica. Alla fine il fondo di Mincione, in base al contratto, dovrebbe dare alla società di Dubai ben «sei milioni di dollari», di cui effettivamente pagati – risulta a Domani – sono circa 2,2 milioni: a un certo punto Mincione smette infatti di versare (come in effetti riferito da Torzi ai magistrati) la parte variabile sulla gestione.

Fin qui, i rapporti tra Mincione e Simetovic potrebbero essere giustificati dalla mediazione del sammarinese per aver presentato il finanziere che voleva Carige ai dirigenti di Credit Suisse che gestiscono il denaro del Vaticano. Ma quando gli inquirenti analizzano uno dei computer sequestrati a Crasso sequestrati, scoprono che la Divanda di Crasso a Santo Domingo avrebbe fatturato nel 2016 ad Aspigam Dubai ben 200mila dollari. Perché Simetovic paga i Crasso? Nella causale si giustifica l’operazione come «pagamento consulenza immobiliare». Di più: in una mail di ottobre 2015 una dipendente della Banca svizzera italiana avverte Crasso che sul conto svizzero di Divanda «oggi sono entrate 350mila sterline da Aspigam».

Faccia a faccia

In realtà i soldi arrivati dalla società di Simetovic sono molti di più di quelli elencati nell’informativa dei gendarmi: quando Diddi qualche settimana fa ha chiesto a Crasso l’entità dell’ammontare delle commissioni ottenute da Aspigam, il banchiere ha detto che sono «oltre i 3,3 milioni di euro». Possibile siano – come teorizza più di un investigatore – la prebenda data da Mincione (che non è indagato per corruzione) a Crasso attraverso Simetovic per avergli permesso di entrare in affari con la segreteria di Stato? Mincione nega, ma Crasso – quando i pm hanno fatto domane su perché avesse incassato tanti soldi da Simetovic – è stato piuttosto evasivo. «Quando nel 2014 stavo per lasciare Credit Suisse, avevamo messo in piedi con il team dell’investment banking delle ristrutturazioni un portafoglio di circa 36 milioni: le commissioni di questi prodotti mi sono state pagate tramite questa società, con un primo contratto sulla loro (società) da Panama... poi un altro nel 2015 su Dubai... mi furono pagati commissioni di 36-38 milioni di prodotti fatti con loro, e quindi nulla a che vedere con commissioni pagate dal gruppo Mincione», ha detto.

Ma appena Diddi gli ha domandato a chi faceva capo la Aspigam e chi erano i clienti per cui lui investiva tutti quei soldi, Crasso ha tentennato: «Non vedo perché devo darle una risposta». Il promotore ha insistito, ma il banchiere ha nicchiato di nuovo. A quel punto è intervenuto Pignatone: «La domanda (Diddi) la può fare, lei ha la facoltà di non rispondere». Crasso: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Pignatone, ironico, ha concluso: «È ovvio».

 

© Riproduzione riservata