Trent’anni fa, col golpe fallito d’Agosto si dissolveva, di fatto, l’Unione Sovietica – la fine de jure sarebbe poi arrivata il 26 Dicembre 1991.

Non si è mai fatto molto chiarezza su quelle giornate caotiche: un golpe che non fa fuori il segretario del Pcus MIkhail Gorbachev, ma che per ben due volte ne chiede l’ appoggio; militari per le strada ma senza sparare un colpo.

E, soprattutto, Boris Eltsin, primo presidente della Federazione Russa, che sull’onda della debacle di Agosto organizza un contro-colpo di Stato in cui cancella prima le istituzioni federali e poi l’Unione sovietica stessa, nonostante in un referendum di pochi mesi prima la netta maggioranza dei cittadini sovietici avesse votato in favore del suo mantenimento.  

Quel che è rilevante in tutto questo è che il fallimento del golpe di agosto non fu certo il momento fondativo di una nuova comunità democratica né fu causato dalla resistenza popolare di poche migliaia di persone davanti al Parlamento russo. Le immagini delle “oceaniche” proteste il giorno del ritiro delle truppe furono più che altro una foto opportunità per Cnn e altri media occidentali.

Rivoluzione o lotta di palazzo?

Si tratta di un punto fondamentale: la fine dell’Urss non fu una lotta di “liberazione” di un popolo affamato di democrazia contro un regime oppressivo, quanto piuttosto uno scontro interno alle élite e la fazione vincente della nomenklatura fu l’unica a guadagnare, spesso in maniera smodata, dal collasso dell’Unione Sovietica.

Questo, sia chiaro, non vuol dire che nell’epoca della perestrojka non ci fosse un fermento politico e culturale, soprattutto nelle grandi città, che aspirava a riformare e democratizzare un sistema in chiara crisi.

Mancavano però tanto le organizzazioni politiche che il sostegno di massa che si ebbe invece in altri paesi oltre cortina, dove spesso le pulsioni democratiche erano accompagnate da un sentimento di riscatto nazionale e di liberazione dall’occupazione sovietica.

Questo tipo di legittimità popolare mancava al nuovo corso eltsiniano che nacque, appunto, da un golpe fallito e dalla subitanea implosione delle istituzioni sovietiche: costruite come erano sulla centralità del Partito Comunista furono incapaci di adattarsi ai tentativi di “ristrutturazione” di Gorbachev che tentava di ridurre il ruolo del Pcus.

La storia successiva si è sviluppata lungo le linee tracciate da quel collasso: le istituzioni informali, sviluppatesi in decenni di potere sovietico, ma tenute sotto controllo dal partito, divennero dominanti mentre l’impotente nuovo Stato russo era incapace di esercitare anche le più elementari funzioni.

La privatizzazione de facto (ben prima di quella ufficiale) delle industrie di Stato  ed il processo centrifugo che trasformò l’ex nomenklatura regionale in potentati clientelari largamente autonomi dal potere centrale contribuirono a consolidare il potere, spesso extra lege, degli insider che trasformarono la transizione in un processo che non è certo eccessivo definire “modello Far West”.

Allo stesso tempo la mancanza di supporto popolare impedì qualsiasi tentativo di reale democratizzazione: basti ricordare che, oltre il bombardamento del Parlamento effettuato da Eltsin, per stessa ammissione di alcuni protagonisti di allora, tanto il referendum costituzionale del 1993 quanto soprattutto le elezioni presidenziali del 1996 furono caratterizzate da brogli di massa che invertirono il risultato delle urne.  

Non può allora davvero sorprendere che da una situazione di anarchia ed abuso dei più forti sorgesse poi un potere repressivo come quello del presidente Vladimir Putin che mise in cima alla sua agenda politica la ricostruzione dello Stato russo, la ri-centralizzazione del potere e il controllo dei poteri oligarchici. Senza eccedere in determinismi storici, va comunque sottolineato come l’ultimo atto del potere sovietico e la maniera in cui l’Urss scomparve fu indubbiamente foriero di conseguenze che difficilmente, a distanza di trent’anni, si potrebbero definire positive.  

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