A Ussaramanna, piccolo comune con 512 abitanti nella provincia del Medio Campidano in Sardegna, la stangata dei prezzi dell’elettricità si sentirà molto meno.

Oltre 60 tra famiglie e imprese, compresi un bar e una parrucchiera, si sono messi insieme per condividere l’energia fornita da tre impianti fotovoltaici: uno da 11 kilowatt già presente sul tetto del municipio e due per 60 kilowatt complessivi che saranno installati sul Centro di aggregazione sociale e sul deposito comunale, per una produzione totale di circa 72 megawattora all’anno.

«Grazie a questa operazione i soci risparmieranno circa il 25 per cento del costo dell’energia» spiega Sara Capuzzo, presidente di Ènostra, cooperativa energetica di Milano che ha fornito la sua consulenza, «e con l’aumento delle quotazioni del metano il beneficio aumenterò ulteriormente».

Ma non è solo il portafoglio ad aver spinto gli abitanti di Ussuramanna ad aderire al progetto: «È palpabile anche la voglia di essere più autonomi e di contribuire alla transizione energetica e allo sviluppo di iniziative di carattere sociale a vantaggio di tutta la collettività» sostiene Capuzzo.

A pochi chilometri di distanza, nel comune di Villanovaforru (610 abitanti), una quarantina di soci, tra cui un albergo e un bed and breakfast, hanno seguito lo stesso percorso e stanno per condividere l’energia prodotta dall’impianto fotovoltaico da circa 53 kilowatt che sarà realizzato sulla palestra della scuola media.

Energia dal basso

Roberto Monaldo

Quelle avviate nei due paesi sardi sono delle comunità energetiche. Delle piccole Lilliput rispetto ai giganti dell’elettricità, ma che moltiplicandosi potrebbero dare un sensibile contributo alla transizione ecologica dell’Italia: secondo uno studio firmato da Elemens-Legambiente, nel 2030 le comunità energetiche potranno contribuire addirittura con circa 17 gigawatt di nuova potenza da rinnovabili (una centrale a carbone come quella di Civitavecchia ha una potenza di 2 gigawatt). Forse sono previsioni ottimistiche, ma certamente il fenomeno è interessante.

L’idea di affidare ai cittadini la possibilità di creare dei piccoli centri di produzione elettrica nasce in Europa con la direttiva Renewable energy (Red) del 2018, recepita nel 2020 in Italia dal decreto Milleproroghe. Il provvedimento ha introdotto nel nostro paese le definizioni di «autoconsumatori di energia rinnovabile che agiscono collettivamente» e «comunità di energia rinnovabile».

I primi sono i residenti di un condominio o di un gruppo di condomini facenti parte di un complesso, che agiscono collettivamente in virtù di un accordo privato e che producono energia elettrica rinnovabile per il proprio consumo e possono venderla alla rete nazionale.

Tipicamente la fonte energetica è una serie di pannelli fotovoltaici piazzati sui tetti. E poiché gli spazi per gli impianti sono ridotti, la produzione energetica attesa è modesta. Le comunità energetiche invece sono dei soggetti giuridici formati da gruppi di cittadini, imprese, enti locali, che producono elettricità verde con l’obiettivo di portare benefici sociali ed economici alla comunità e di garantire una maggiore autonomia.

Le comunità possono utilizzare singoli impianti con potenza non superiore a 200 kilowatt. Questi gruppi di consumatori non devono avere però come principale attività la produzione di energia e il loro fine non è il lucro.

Il motore è il comune

PHOTOPQR / Philippe Cherel / MaxPPP LaPresse

Di solito il motore delle comunità energetiche è il comune che decide di installare a proprie spese un impianto solare e poi coinvolge la cittadinanza nella nuova iniziativa. L’Electricity market report 2021, realizzato dal Politecnico di Milano e da Energy & strategy group, ha dedicato un approfondimento sulle comunità energetiche analizzando 21 comunità energetiche rinnovabili e 12 gruppi di autoconsumo collettivo: la potenza media degli impianti delle comunità è di circa 48 kilowatt e quello per autoconsumo di 32 kilowatt.

Il fotovoltaico è la fonte di produzione di energia elettrica predominante. Il catalizzatore è appunto il comune o un ente locale che si avvale di finanziamenti a fondo perduto o agevolati. In questo caso gli impianti vengono posizionati su edifici pubblici.

Poi ci sono casi in cui il soggetto promotore è un operatore del settore energetico che coinvolge l’amministrazione comunale. In questo caso gli impianti sono localizzati su edifici comunali, privati o di piccole aziende, e l’investimento, a seconda delle situazioni è fatto dalla società energetica con la partecipazione dei cittadini e delle imprese locali.

La comunità di autoproduttori ottiene tre vantaggi economici: la restituzione degli oneri della rete; un prezzo più basso per l’energia autoprodotta; il pagamento dell’energia non utilizzata e immessa in rete.

La somma di tutti i benefici ammonta a circa 150-160 euro per megawattora. In pratica i soci che partecipano alla comunità continuano a ricevere la bolletta dal proprio gestore elettrico, che può essere l’Enel, l’Eni o l’Edison.

Mentre la comunità riceve il pagamento dei contributi e dell’energia immessa in rete attraverso il Gestore della rete (Gse), e poi li distribuisce ai soci secondo quanto stabilito dal contratto privato con i partecipanti alla comunità energetica.

Quindi il risparmio di ciascun cliente è funzione della quantità di energia complessivamente autoconsumata dalla comunità e delle scelte adottate riguardo alla ripartizione dei ricavi.

Fenomeno in crescita

Anche se le comunità sia condominiali, sia energetiche sono ancora poche (al Gse ne risultano collegate alla rete una decina), i progetti pronti a partire sono parecchi. Legambiente ha censito 16 progetti di comunità energetiche a cui si aggiungerebbero 7 nelle primissime fasi preliminari.

«Le comunità energetiche» ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente di Legambiente «rappresentano non solo uno strumento ideale per contribuire in modo concreto alla lotta contro la crisi climatica, ma anche uno strumento fondamentale contro la povertà energetica che oggi riguarda oltre due milioni di famiglie della penisola».

Tra le esperienze significative segnalate da Legambiente, c’è la comunità energetica Energy city hall di Magliano Alpi, in provincia di Cuneo, strutturata attorno a un impianto fotovoltaico posizionato sul tetto del municipio in grado di garantire l’autonomia energetica a quest’ultimo, alla biblioteca, alla palestra, alle scuole e permette di avere energia in surplus da scambiare fra 5 famiglie di privati cittadini aderenti.

Oppure la comunità di autoconsumo collettivo nel comune di Pinerolo, in Piemonte, diventata operativa nel maggio scorso. Nel frattempo la cooperativa Ènostra sta seguendo come consulente altri due progetti in Puglia.

Anche il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) sostiene le comunità energetiche e di autoconsumo, destinando a questi progetti un investimento di 2,2 miliardi. «In particolare» si legge nel Piano «questo investimento mira a garantire le risorse necessarie per installare circa duemila megawatt di nuova capacità di generazione elettrica in configurazione distribuita da parte di comunità delle energie rinnovabili e auto consumatori di energie rinnovabili che agiscono congiuntamente».

«Ma trattandosi di soldi che vanno restituiti» commenta Capuzzo «probabilmente non verranno utilizzati dai cittadini. Più facile che verranno sfruttati dalle imprese per creare delle comunità energetiche formate da gruppi di aziende».

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