Il fiume Azzurro, utilizzato da secoli per l’irrigazione dei campi e come via di trasporto per merci ed esseri umani, nell’estate del 1998 si trasformò in un mare in tempesta che travolse città e villaggi nelle province dello Hubei, del Jianxi e dello Hunan. Morirono più di tremila persone e in 15 milioni rimasero senza un tetto.

Secondo l’ufficio delle Nazioni unite per gli affari umanitari (Ocha), oltre che dal passaggio dei cicloni El Niño e La Niña, quel disastro fu causato «dalla deforestazione sfrenata che ha provocato una grave erosione e, in seguito, lo squarciamento del suolo».

La tragica esondazione del corso d’acqua che i cinesi chiamano Cháng Jiāng (Fiume lungo), che col suo percorso di 6.300 chilometri dalla sorgente sull’altopiano tibetano al delta nell’area di Shanghai divide il nord dal sud del paese, segnò un nuovo spartiacque “ambientalista”: la natura, che con l’avvio, venti anni prima, della stagione di “riforma e apertura” (găigé kāifàng) era stata sacrificata sull’altare del prodotto interno lordo, iniziò ad essere riconsiderata un patrimonio da tutelare.

Polmoni verdi

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Un quarto di secolo più tardi, è proprio nella salvaguardia delle foreste che la Cina ha fatto registrare alcuni tra i suoi progressi più notevoli.

Nel novembre scorso, durante la conferenza Cop26, la Repubblica popolare cinese (che con 220 milioni di ettari è il quinto paese al mondo per superficie coperta da boschi) ha firmato con altri 140 paesi la dichiarazione di Glasgow sulle foreste, impegnandosi per la prima volta con la comunità internazionale a «lavorare collettivamente per fermarne e invertirne la perdita e il degrado» entro il 2030, anche attraverso la regolamentazione della produzione, del commercio e degli investimenti delle materie prime causa di deforestazione.

Assieme alla riduzione dell’utilizzo del carbone, del metano, e alla promozione della mobilità elettrica, quella sulle foreste è una delle quattro iniziative sottoscritte nella capitale scozzese per ridurre il riscaldamento globale.

Le foreste infatti sono polmoni verdi che continuamente espirano nella e aspirano dall’atmosfera anidride carbonica. Secondo uno studio pubblicato un anno fa sulla rivista scientifica Nature (Global maps of twenty-first century forest carbon fluxes), la quantità di diossido di carbonio che rimuovono può arrivare fino al doppio di quella che immettono nell’aria che respiriamo.

Ma c’è foresta e foresta: quelle degradate e spianate a uso commerciale rilasciano più CO2 di quanta ne assorbano, al contrario quelle pluviali tropicali fanno registrare le migliori performance nel mitigare i cambiamenti climatici.

Gli impegni di Pechino

Il territorio della Cina è coperto da foreste a sud e a nord-est. Nella provincia meridionale dello Yunnan, Xishuangbanna (2.402 km2) è tra quelle tropicali meglio conservate al mondo. La più grande invece è il parco nazionale di Jianfengling sull’isola di Hainan, che, grazie alle campagne anti povertà che hanno permesso ai contadini di smettere di tagliare alberi per guadagnarsi da vivere, negli ultimi vent’anni si è allargata di oltre duecento mila ettari.

La Cina ha intrapreso massicce campagne di rimboschimento nel tentativo di limitare le emissioni di anidride carbonica, delle quali, con oltre il 25 per cento di quelle complessive, detiene il triste primato mondiale.

Secondo l’ultimo Global Forest Resources Assessment della Fao, tra il 1990 e 2020 la Cina è stato il paese che più ha allargato il territorio coperto da foreste: ogni anno 1.937.000 ettari in più (+0,93 per cento). Nel 2019 anche le immagini satellitari della Nasa hanno confermato questo trend. E il XIV piano quinquennale (2021-2025) punta ad aumentare del 24,1 per cento il territorio coperto da foreste.

Nel resto del mondo però c’è ancora tanta strada da fare. Lo studio della Fao sottolinea che, negli ultimi trent’anni, la deforestazione ha colpito nel mondo 178 milioni di ettari (un’area vasta come la Libia) ed è stata particolarmente concentrata nel sud-est asiatico e nel continente nero (esclusa l’Africa occidentale).

Già nel 2014, a New York, quaranta stati riuniti nel summit sul clima delle Nazioni unite promisero che avrebbero dimezzato la deforestazione entro il 2020 e che l’avrebbero fermata entro il 2030. Ma la differenza oggi potrebbe farla proprio la Cina.

Alla seconda economia del pianeta, con la sua fame di materie per la produzione di beni da esportare e per il nutrimento dei suoi 1,4 miliardi di abitanti, tocca soprattutto l’onere d’innescare comportamenti virtuosi nelle catene globali di fornitura.

Nel 2018 la civilizzazione ambientale (shēngtài wénmíng) è stata inserita nella costituzione della Repubblica popolare cinese. Secondo la Banca asiatica di sviluppo (Adb) questo concetto è un catalizzatore di riforme e progresso con implicazioni globali «che ha iniziato ad affermarsi, ad esempio, anche all’interno del programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep) e dell’Assemblea generale».

Gli impegni e i successi di Pechino possono permetterle di rivendicare un ruolo di primo piano nelle battaglie in difesa dell’ambiente che contribuirebbe ad affermarla in seno alla comunità internazionale come potenza “responsabile”. Inoltre, nelle megalopoli cinesi vive una classe media di 400 milioni di persone (la constituency, senza diritto di voto, di Xi Jinping) sempre più sensibile alle questioni ambientali.

Per tutti questi motivi da parte di Pechino sulle foreste nelle ultime settimane non è arrivata solo la dichiarazione di Glasgow, ma anche impegni con l’Ue, durante il secondo High-level environmental and climate dialogue, e con Washington, all’interno della dichiarazione congiunta Cina-Stati Uniti pubblicata a margine della Cop 26.

Più soia, meno foreste

AP Photo/Martin Zetina

La Cina non solo acquista legname da tutto il mondo (soprattutto per esportarlo come prodotto lavorato), ma è anche il principale importatore di materie prime la cui coltura intensiva comporta deforestazione.

Il 60 per cento dei semi di soia prodotti nel mondo finisce in Cina per soddisfare il consumo interno, così come il 13 per cento dell’olio di palma e il 15 per cento della polpa di cellulosa (per produrre carta). Insomma se Pechino rispettasse e facesse rispettare sulle global supply chains i princìpi sottoscritti a Glasgow, l’intero pianeta potrebbe respirare un po’ meglio.

Sulle filiere del legname Pechino ha già fatto tanto. L’abbattimento degli alberi delle foreste naturali è un reato in tutto il paese dal 2020, dall’ultima revisione della legge sulle foreste. Il paese ha sviluppato un sistema di certificazione sulla (legalità della) provenienza del legname che le compagnie dovrebbero applicare anche a quello importato dall’estero.

Ciò dovrebbe impedire quello che si è verificato finora: ad esempio, la spoliazione di milioni di alberi dal bacino del fiume Congo per rifornire il mercato cinese documentata da Greenpeace. Pechino comunque punta ad avere avere, entro il 2035, duecento milioni di metri cubi di foreste “di riserva”, per raggiungere, anche in questo settore, l’autosufficienza. Resta il problema dell’allevamento di bestiame, della soia, e dell’olio di palma che, sempre secondo la Fao, sono all’origine del 40 per cento della deforestazione.

Se è vero che gli stessi controlli applicati al legname, grazie agli ultimi impegni internazionali sottoscritti da Pechino, verranno estesi anche alle materie prime agricole, è altrettanto vero che farli rispettare si preannuncia più difficile, perché da un lato Pechino, in una fase caratterizzata da incertezza e tensioni internazionali, insegue l’obiettivo primario di assicurare la stabilità dei suoi approvvigionamenti e, dall’altro, la produzione e la commercializzazione di queste ultime sono monopolizzate da un manipolo di grandi multinazionali (Cargill, Jbf, Aak, tra le altre) sulle quali non solo la Cina non ha influenza, e che hanno tutto l’interesse a soddisfare in ogni modo la crescente domanda cinese.

Una domanda che non va demonizzata (perché, naturalmente, a un certo punto, si fermerà), ma che tuttavia, se si concretizzerà il piano del partito comunista di «espandere significativamente entro il 2035 la classe media» (attualmente circa 400 milioni di persone), nei prossimi anni continuerà ad aumentare.

Trovare il modo, ad esempio mediante nuovi accordi con compagnie responsabili nei paesi produttori, di assicurare la sostenibilità ambientale delle catene globali di fornitura: è questa la sfida più importante sulla quale ora è chiamati a lavorare la Cina per salvare le foreste.

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