I livelli del ghiaccio marino in Antartide hanno registrato i minimi storici per tre anni consecutivi, facendo presagire gravi conseguenze per la vita sulla Terra così come la conosciamo. Sono conclusioni dello scienziato Miguel Angel de Pablo dell’Università di Alcalà (Spagna), il quale sottolinea anche come l’umanità sembra essere ignara degli avvertimenti in atto.

«Noi (scienziati) siamo molto preoccupati... perché non vediamo come possiamo risolvere questa situazione da soli», ha detto il geologo spagnolo. «Quanti allarmi dobbiamo far suonare ancora per far sì che la società sia consapevole di ciò che sta accadendo? Sembra proprio che non veniamo ascoltati, che siamo (percepiti come) allarmisti nonostante l’evidenza».

Dati allarmanti

Il National Snow and Ice Data Center (Nsidc) degli Stati Uniti ha riferito recentemente che l’estensione minima del ghiaccio marino antartico è stata inferiore a due milioni di chilometri quadrati rispetto alla media 1991-2010 per il terzo febbraio consecutivo, il culmine della stagione di disgelo estivo meridionale.

La copertura minima di ghiaccio marino per tutti e tre gli anni è stata la più bassa da quando sono iniziate le registrazioni 46 anni fa. Le conseguenze sono molteplici, a partire dal fatto che il ghiaccio bianco riflette più raggi solari rispetto all’acqua più scura dell’oceano e la sua perdita, di conseguenza, accentua il riscaldamento dell’oceano circostante l’Antartide e dunque il riscaldamento globale. «Anche se siamo lontani da qualsiasi parte abitata del pianeta, in realtà ciò che accade in Antartide influenza l’intero pianeta», ha detto De Pablo.

Uno studio dello scorso anno ha rilevato che quasi la metà delle piattaforme di ghiaccio dell’Antartide (i tavolati di ghiaccio galleggiante attaccati alla massa continentale) si è ridotta di volume negli ultimi 25 anni, e, poiché quelle lingue di ghiaccio arrivano dai continenti, la loro fusione ha determinato un rilascio di trilioni di tonnellate di acqua negli oceani.

«Ciò ha implicazioni non solo per il livello del mare, ma anche per la salinità e la temperatura dell’oceano», ha spiegato De Pablo, che ha dedicato 16 anni della sua vita allo studio del ghiaccio. «Il problema è che queste degradazioni non sono facilmente annullabili», ha detto.

«Anche se oggi cambiassimo i ritmi di vita che abbiamo nelle società occidentali, domani i ghiacciai non cesserebbero di degradarsi né i terreni ghiacciati di andare perduti», con tutto ciò che ciò comporta. Gli scienziati stimano che le temperature globali siano già complessivamente 1,2 gradi celsius più calde rispetto ai livelli preindustriali. L’accordo di Parigi del 2015 si proponeva di limitare il riscaldamento a 1,5 gradi, frenando le emissioni che riscaldano il pianeta.

L’Antropocene non è iniziato

Sono trascorsi circa 15 anni da che si è iniziato a discutere l’ipotesi, avanzata da gruppi di geologi, che vuole che recentemente sia iniziato un nuovo periodo geologico chiamato Antropocene. A sostegno ci sarebbero impatti umani irreversibili sul nostro pianeta, tali da poter mettere una riga all’Olocene, il “periodo” geologico che stiamo vivendo, per darne vita a uno nuovo. Ebbene, stando a una sentenza da poco emessa, il nuovo periodo non prenderà il via, ma continueremo a vivere nell’Olocene. A prendere questa decisione è stata una commissione internazionale, ma, per onor di cronaca, va detto che è stata contestata dal presidente e da un vicepresidente della commissione stessa che ha gestito il voto. Ufficialmente, dodici membri della “Sottocommissione internazionale sulla stratigrafia quaternaria” (Sqs) (la stratigrafia è lo studio degli strati della Terra) hanno votato contro la proposta di creare un’epoca dell’Antropocene, mentre solo quattro hanno votato a favore.

Ciò normalmente costituirebbe una sconfitta assoluta, ma una sfida è stata lanciata dal presidente dell’Sqs, il paleontologo Jan Zalasiewicz dell’Università di Leicester, nel Regno Unito, e da uno dei vicepresidenti del gruppo, lo stratigrafo Martin Head della Brock University di St Catharines, Canada. In un comunicato stampa, hanno chiesto l’annullamento della votazione, richiesta che non verrà attuata. Hanno scritto che «il presunto voto è stato effettuato in violazione degli statuti della Commissione internazionale di stratigrafia», compresi gli statuti che regolano l’ammissibilità al voto. Zalasiewicz ha detto a Nature che comunque non sono responsabili delle irregolarità procedurali, che verranno spiegate più in là. David Harper, geologo dell’Università di Durham, nel Regno Unito, che presiede l’Ics (Commissione internazionale sulla stratigrafia), aveva precedentemente confermato a Nature che a questo punto la proposta «non può essere portata avanti ulteriormente». I sostenitori potrebbero avanzare un’idea simile solo in un prossimo futuro.

La proposta

Ma in dettaglio cosa prevedeva questa proposta e perché da alcuni era ritenuta importante? La proposta avrebbe posto fine all’attuale epoca dell’Olocene, che va avanti dalla fine dell’ultima era glaciale iniziata 11.700 anni fa e avrebbe dato inizio all’Antropocene con una data ben precisa: il 1952. L’anno di riferimento è quello in cui è apparso il plutonio proveniente dai test della bomba all’idrogeno nei sedimenti del lago Crawford vicino a Toronto.

Subito dopo quell’anno, fanno la loro comparsa le microplastiche, i pesticidi e le ceneri derivanti dalla combustione di combustibili fossili, elementi che “indiscutibilmente” darebbero il via a un nuovo periodo geologico caratterizzato dalla presenza dell’uomo sulla Terra.

L’introduzione dell’Antropocene sarebbe stata importante, dicono i sostenitori, soprattutto da un punto di vista concettuale e culturale, perché avrebbe aiutato l’umanità a prendere coscienza di quel che l’uomo ha fatto sul nostro pianeta da che è iniziata l’industrializzazione. «Ora ci troviamo su un pianeta fondamentalmente imprevedibile, in una situazione che non abbiamo mai sperimentato negli ultimi 12mila anni», dice Julia Adeney Thomas, storica dell’Università di Notre Dame nell’Indiana.

Aree marine protette

Un drammatico innalzamento della temperatura dell’acqua di 4 o 5 gradi per almeno cinque giorni. Sono queste le ondate di calore che interessano sempre più i mari del nostro pianeta mettendo a rischio la fauna ittica e la sopravvivenza di alcune specie.

Le aree marine protette sono però una risposta in grado di mitigare questo fenomeno dovuto al cambiamento climatico.

Questa affermazione arriva da uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature Communications, coordinato dall’Università di Pisa. «È noto che le aree marine protette, se ben gestite e con opportuna sorveglianza, hanno effetti positivi sulla fauna marina eliminando o riducendo gli effetti diretti della pesca», spiega il professore Lisandro Benedetti-Cecchi del dipartimento di Biologia dell’ateneo pisano primo autore dell’articolo, «per la prima volta grazie a questo studio abbiamo dimostrato che sono anche in grado di mitigare l’impatto delle ondate di calore».

La ricerca ha riguardato 2.269 specie di pesci costieri che vivono in 357 siti interni alle aree marine protette e 747 siti esterni. I dati provengono da oltre 70mila osservazioni ottenute su intervalli temporali che vanno da un minimo di 5 a un massimo di 28 anni.

Le aree marine protette studiate sono sparse in tutto il globo, nel Mediterraneo soprattutto in prossimità delle coste spagnole, poi in Australia, California e Indo-Pacifico. Tutta questa mole di informazioni è stata messa insieme anche grazie alla cosiddetta “citizen science”, la scienza che si realizza con il contributo dei cittadine e cittadini.

«Le proiezioni suggeriscono che i cambiamenti nel clima oceanico, di cui le ondate di calore sono espressione, si acutizzeranno nei prossimi decenni, e che gli attuali tassi di riscaldamento supereranno presto il margine di sicurezza termica di molte specie», sottolinea Benedetti-Cecchi. «L’allarme è ancora maggiore per il mar Mediterraneo, che si sta riscaldando a un ritmo allarmante di tre volte quello dell’oceano globale».

A subire le conseguenze delle ondate di calore è la stabilità dell’intero ecosistema e delle popolazioni, con i pesci erbivori che tendono ad aumentare e i carnivori, come squali, barracuda, cernie o dentici, che invece sono più minacciati. Il risultato può essere il collasso dell’intero sistema sino all’estinzione locale di alcune specie. Questi effetti sono però molto mitigati dalle aree marine protette. Qui le popolazioni di pesci sono più abbondanti e funzionalmente strutturate rispetto alle aree non protette, conferendo stabilità alle comunità anche in presenza di eventi climatici estremi.

«Il nostro lavoro», conclude Benedetti-Cecchi, «vuole enfatizzare l’importanza delle aree marine protette per salvaguardare la fauna marina fornendo supporto alle politiche di conservazione, articolate nelle varie direttive internazionali, come ad esempio la Convention for Biological Diversity, secondo le quali entro il 2030 almeno il 10 per cento della superficie degli oceani dovrebbe essere sottoposto a protezione».

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