Il termine “antropocene” è ormai entrato nel linguaggio comune. È stato coniato nel 2000 dall’olandese Paul Crutzen – premio Nobel per la chimica – e voleva indicare una nuova èra geologica, la nostra. Quella, cioè, in cui l’intero globo viene modificato dall’azione dell’uomo, in cui l’ambiente viene alterato dalla presenza umana nelle sue condizioni chimiche, fisiche, biologiche.

È una parola che tenta di racchiudere dentro di sé l’enormità della nostra specie animale, l’unica a essere così capillare sulla superficie terrestre (dalle montagne più alte alle isole più remote, dai poli all’equatore, dai ghiacciai al deserto), l’unica ad aver terraformato a propria immagine un intero pianeta.

Descrive quindi una tragica – e relativamente recente – consapevolezza: il cambiamento climatico è una conseguenza del nostro vivere, della società industrialmente energivora  e consumista  che abbiamo costruito.

La letteratura, in questi anni, ha assorbito questa consapevolezza in diversi modi. Tramite la nostra azione sul mondo, abbiamo scoperto il mondo fuori di noi. Abbiamo iniziato a vedere tutto ciò che uomo non è. E abbiamo iniziato, lentamente, ad assumerne il punto di vista.

Non sarà sfuggito a nessuno il popolarsi degli scaffali di libri variamente dedicati alla “natura”: alberi, foreste, montagne, animali, funghi, insetti, persino minerali. Racconti, romanzi, poesie, saggi dalla neurofisiologia delle piante all’intelligenza di corvi e polpi.

Fino a qualche anno fa, gli esperti di marketing libraio lo avrebbero chiamato «nature writing», ma ora c’è qualcosa di più. Ora c’è un’inquietudine che non li rende semplici libri di giardinaggio. 

Nuova sensibilità

Ho letto più volte l’articolo di Francesco Guglieri, Il meteorite che ci farà estinguere siamo noi, pubblicato su Domani del 15 ottobre. È un pezzo che traccia secondo me un ritratto veloce ma fondamentale, una fotografia dell’emergenza di una nuova sensibilità ecologica e culturale. Lo spostamento di un baricentro.

Guglieri ricostruisce una piccola biblioteca dell’antropocene, tracciando un filo rosso che emerge da libri pubblicati recentemente da editori diversi, ma che indicano tutti uno stesso punto, pur se ciascuno con la propria voce.

D’altronde, i libri si parlano da sempre, e funziona così: il nuovo prima non si vede, poi solo a chiazze, e poi è lì, dappertutto. Ecco che il futuro è diventato presente, e a malapena ce ne siamo accorti.  

In questi libri – di scrittori, di filosofi, di scienziati – la natura è sempre meno qualcosa di assoluto e separato dall’uomo, ma sempre di più un ambiente di cui l’uomo fa parte, un sistema complesso in cui noi siamo soltanto uno dei fattori. La classica piramide verticale (alimentare, ma anche ontologica) collassa in una rete orizzontale.

Sono cose che scientificamente conosciamo da decenni – alcune religioni le sanno da millenni – ma che in occidente, a livello culturale, stiamo apprezzando solo recentemente, spinti da quella scadenza improrogabile che è la crisi climatica.   

È un sintomo di un cambiamento più profondo nella nostra società, uno smarrimento dovuto a un senso di perdita che tutti noi avvertiamo, consciamente o meno. Il cambiamento climatico è, prima di tutto, angoscia per il futuro. Ed è naturale che questo sia vero soprattutto per chi è più giovane, cioè da chi ha molto più futuro da perdere, che passato da riverire con nostalgia. 

Smarrimento

È probabilmente esagerato pensare a Smarrimento di Richard Powers come al primo vero romanzo dell’antropocene. Si potrebbe anzi argomentare che fosse il suo libro precedente, Il sussurro del mondo, premio Pulitzer 2019 per la narrativa, a rappresentare al meglio questo ruolo: romanzo meraviglioso intessuto e costruito come una foresta, dove gli alberi mantengono lo stesso ruolo da protagonisti assieme ai brevi e fragili esseri umani.

Ma Smarrimento è interessante non tanto per la “costruzione” letteraria – si tratta, in fondo, di un romanzo classico, lievemente fantascientifico, con squarci immaginativi folgoranti e bellissimi, ma incentrato fondamentalmente su un rapporto padre e figlio.

In questi anni, chi si è occupato di ecologia e crisi climatica si è sentito continuamente interpellato dalla grande domanda dello scrittore indiano Amitav Gosh, che ne ha fatto il perno del suo celebre saggio La grande cecità: perché la letteratura mainstream non si occupa di qualcosa di così grosso come il cambiamento climatico? Non è forse l’evento più importante che viviamo e vivremo? Perché rimaniamo così miopemente attratti solo dai nostri piccoli affari umani troppo umani? 

Ecco, credo che Powers con Smarrimento abbia tentato di dare risposta a queste domande. Lo ha fatto attraverso un romanzo potente e immaginifico, ma che proprio rimanendo saldamente ancorato alla “forma romanzo”, attraverso una storia in cui è facilissimo immedesimarsi, riesce nel suo intento.

L’empatia è al centro di tutto. Tutto il libro è un dialogo costante con il dolore: la sofferenza per la perdita di una madre e di una moglie, ma anche la sofferenza degli animali negli allevamenti intensivi, o quel senso di perdita e angoscia climatica che viene dalla consapevolezza del collasso ecologico, di una estinzione inarrestabile di milioni di specie animali e vegetali, guardando in faccia una crisi che è solo all’inizio.

Essere adulti

Si sa che gli esseri umani adulti sono estremamente efficaci nel crearsi giustificazioni e razionalizzazioni di ogni genere. Powers allora affida al cuore e al cervello “neurodiverso” di un bambino di nove anni – il protagonista Robin – il compito di mettere a fuoco i termini di cosa voglia dire “cambiamento climatico”, “sesta estinzione”, “allevamento intensivo”. Termini che leggiamo in giro o ascoltiamo al telegiornale, ma che siamo molto bravi a non sentire sulla pelle. D’altronde, siamo sempre molto bravi a deviare il dolore.

Ispirato da Greta Thunberg – che infatti appare nel libro con altro nome, Inga Adler – Powers usa la lente dell’“autismo” per raccontare cosa voglia dire essere empatici e innocenti in un mondo che muore, e in cui la maggior parte delle persone volge lo sguardo dall’altra parte.

Nel libro, Robin si preoccupa della cosiddetta “sesta estinzione”, uno dei tanti rivoli del grande delta della crisi climatica. L’essere umano falcia la biodiversità con la deforestazione, allargando la sua impronta, e il riscaldamento e lo stravolgimento degli ecosistemi fanno il resto. Da anni ormai, stiamo perdendo specie animali e vegetali a un ritmo impressionante. 

Di fronte a tutto questo, un bambino sensibile come Robin è completamente smarrito: come fate a rimanere sani di mente di fronte a tutto questo? Come fate a non cambiare le cose?

Se il tema del “dolore del mondo offeso” – per dirla con Vittorini – è una delle grandi strade della letteratura globale, non si può certo dire che il dolore animale sia uno dei sentieri più battuti.

Dalla cattedra suprema della sua innocenza e della sua ipersensibilità, Robin non può far altro che assorbire il mondo senza davvero comprendere: il suo radar per la fuffa (il blablabla, direbbe Greta) è troppo accurato, la sua attenzione alle cose importanti troppo precisa. I suoi ragionamenti non ammettono repliche.

Il padre, astrobiologo, che di lavoro immagina la vita aliena su pianeti infinitamente lontani sulla base di spettroscopie, comprende in fretta che le sue risposte a Robin sono solo balbettii, risposte convenzionali date da un mondo che ha le sue regole, spesso stupide e poco razionali. Essere adulti, in fondo, è capire che non puoi combattere tutte le battaglie, anche quelle giuste. Ci sono bollette da pagare, scadenze da rispettare, vicini con cui non litigare, capi da non far arrabbiare, prepotenti a cui non poter davvero rispondere.

Ma Robin questo non lo sa. Per lui, come nel mondo reale per Greta, la neurodiversità è un “superpotere”: mi è tornato in mente perché Inga Adler mi sembrava sempre soprannaturale. Una volta aveva definito il suo autismo la sua qualità speciale, «Il mio microscopio, il mio telescopio e il mio laser, tutto insieme». Aveva sofferto di una profonda depressione e persino provato a togliersi la vita. Poi aveva trovato un senso in questo pianete vivente.    

Il veganismo

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Power si è lasciato ispirare da Greta per un’altra caratteristica del suo protagonista: Robin, infatti, è vegano. Magari è frutto delle mie scarse letture, ma lo trovo un fatto letterario raro. Quindi significativo. 

Solo negli ultimi anni il veganismo si sta finalmente ritagliando un ruolo nel dibattito culturale più generalista come approccio filosofico serio, e non più relegato invece a dieta per fricchettoni new age e classico bersaglio di battute sempre meno divertenti.   

Robin recita tutte le sere la preghiera laica della sua mamma morta, attivista per i diritti degli animali: «Possano tutti gli esseri senzienti essere liberati dalle sofferenze inutili». 

La preghiera, che viene dai quattro incommensurabili del buddhismo, è uno dei cardini dell’antispecismo, prospettiva filosofica opposta all’antropocentrismo: l’uomo non è più il centro dell’universo, non può più disporre del resto della natura come se fosse solo oggetto, o merce, o materia prima. Se lo studio delle menti animali ce li fa scoprire più intelligenti e sensibili di quello che credevamo, se li sappiamo capaci di dolore fisico e sofferenza psicologica, come giustificare allora l’apparato industriale dell’allevamento intensivo, che imprigiona, tortura e uccide circa settanta miliardi fra maiali, mucche e polli ogni anno? 

La nonfiction si è occupata a lungo della questione, anche con autori illustri, fra cui J. M. Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003, con La vita degli animali, e Jonathan Safran Foer, che con il suo saggio-reportage Se niente importa ha cambiato la vita di centinaia di lettori (fra cui, per inciso, la mia). In Italia, profetici, ma poco letti, sono stati Anna Maria Ortese e Guido Ceronetti.

Ma nei romanzi contemporanei, come dicevo, è raro. Solo un’altra volta ho trovato uno sguardo animalista radicale, senza compromessi: è stato in Capannone n°8, dell’americana Deb Olin Unferth, pubblicato dalla casa editrice Sur, proprio quest’anno. 

Il capannone in questione è un allevamento di galline ovaiole. Ne contiene circa 100mila – un milione assieme agli altri capannoni – stipate in gabbie di poche decine di centimetri l’una, impilate fino al soffitto in una architettura distopica che è la precisa ragione economica per cui possiamo comprare un cartone da sei uova a un euro e mezzo al supermercato, tutto l’anno, a prescindere dalle stagioni. Le galline dei capannoni verranno salvate (o quasi), in un una notte, da un gruppo di attivisti più volenterosi e arrabbiati che organizzati.

Allevamenti intensivi

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Se c’è un aspetto dell’antropocene che amiamo non vedere – uno scotoma, un punto cieco nella nostra visione del mondo e di noi stessi – è quello dell’allevamento intensivo. Fra tutti – forse più del turismo, più dell’auto privata, più dell’iperconsumismo – mette in crisi il nostro modo di vivere, e valori che crediamo sacri. Eppure dovrebbe essere una delle conseguenze più coerenti di una rinnovata consapevolezza del nostro rapporto con la natura, non più verticale ma orizzontale. 

È bene rammentare, seppur brevemente, quali siano i termini di quel buco nero ecologico ed etico di cui stiamo parlando. 

Miliardi di animali vivono in condizioni di sporcizia e sofferenza, fisica e psicologica, confinati in gabbie o spazi troppo stretti; vengono menomati e picchiati, e uccisi alla bisogna. Dopo pochi mesi se animali da carne, dopo qualche anno se invece ne prendiamo latte e uova.

È stato dimostrato ampiamente che le condizioni dei lavoratori, umani, sono anch’esse disumane, e che infliggere violenza ad altri esseri viventi ha conseguenze molto serie, come alcolismo, violenza in famiglia, stress post-traumatico. Senza contare un ambiente pericoloso per i macchinari utilizzati e per l’esposizione a sostanze chimiche, come le tonnellate di liquami. Sono tristemente frequenti gli incidenti mortali nelle vasche dei “liquami zootecnici”: basta una veloce ricerca su Google per trovare molti articoli di giornale, nei quotidiani locali. Senza dimenticare il problema della deforestazione legata ai campi di soia necessari per il mangime, che hanno reso la foresta amazzonica un netto emettitore di anidride carbonica. 

A nessuno di noi piace pensare alle conseguenze delle proprie azioni. È un’attività stancante, ci allontana dal goderci il momento. Quando la domenica mangiamo i tortellini della nonna, vediamo i sorrisi, l’affetto che passa attraverso il cibo, la tradizione gastronomica che secolare arriva a noi, come un rito laico. 

Non ci piace pensare alle galline in gabbia che poi finiranno nel nostro brodo e daranno le loro uova per la pasta, i maiali pungolati e torturati che finiranno nel ripieno, le vacche sfruttate per il loro latte necessario per il formaggio grana. 

È un pensiero che non ho neanche io, quando finisco i tortellini nel piatto di mio figlio. Sono buoni i tortellini, ed è bello mangiare dalle nonne. 

Unferth sa bene tutto questo. Lascia la filosofia e gli slogan animalisti fuori dal libro, narrando la storia di un salvataggio impossibile, raccontandolo da punti di vista molteplici – tra cui quello degli uccelli.

In realtà, l’autrice racconta con un’accuratezza spaventosa quanto la nostra intelligenza e la nostra tecnica siano dedicate allo sfruttamento della natura, nel modo più efficiente ed efficace possibile.

Il romanzo, con il tono ironico e satirico della tragicommedia, lascia pacatamente al lettore tutta la libertà e la responsabilità della propria riflessione, perché quella di Unferth è sì fiction – ma solo fino a un certo punto. La filiera alimentare, l’impalcatura di gabbie che si innalza fino al soffitto, le tonnellate di guano che non si possono smaltire sono tutti fatti reali, soprattutto in America, dove le leggi sono più “flessibili” per gli allevatori, orgogliosi del loro ruolo di sfamatori del popolo.

Unferth fa dire a uno di questi parole esemplari, da alfiere della democrazia: «L’uovo è l’unità nutritiva perfetta. Proteine, vitamina b12, vitamina d. L’ideale per le ossa e per la mente. Forza e intelletto. Una dozzina di uova e il povero mangia come il ricco. Il sogno americano, mia cara Cleveland. La soluzione democratica. Aumenta il prezzo delle uova e la famiglia del povero non mangia più».

Altre volte l’autrice si sofferma sul linguaggio preciso dell’allevamento, a sottolinearne la crudeltà mascherata da burocrazia: «Depopolamento» (leggi: sterminare le galline a centinaia di migliaia), «muta forzata» (leggi: ridurre il mangime a tal punto da farle quasi morire di fame), «debeccaggio» (leggi: tagliargli via un pezzo di faccia), «certificazione» (legittimare, anzi prescrivere, tutta un’altra serie di atrocità), «associazione nazionale produttori di uova» (il gruppo di maschi bianchi sulla cinquantina a capo di tutta la baracca).”

Sembra quasi di sentire la neolingua del Grande Fratello di George Orwell, uno che di satire su umani e animali sapeva qualcosa.

Essere genitori

Antispecismo a parte, Smarrimento e Capannone n°8 sono libri diversi. Il tono tragicomico che accompagna la banda di animalisti militanti nella loro avventura è assente nel viaggio mentale del piccolo Robin, nel suo combattere una sensibilità più grande di lui. È assente anche nelle difficoltà del padre Theo, che non ha strumenti per proteggere il suo piccolo eroe se non il proprio affetto.

Lo dico col rischio di coprirmi di ridicolo, con il trasporto di chi è padre da poco: credo che Smarrimento sia, a oggi, il più importante romanzo sull’essere genitori nell’epoca del cambiamento climatico. Un libro importante per i padri e le madri dei prossimi decenni. 

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