«Vivo in un villaggio a 400 chilometri di distanza da Manaus, capitale dello stato di Amazonas. Per arrivare in città bisogna percorrere 400 chilometri via fiume, non esistono strade. È un villaggio di palafitte dove vivono 15 famiglie come centinaia di altri in Amazzonia. Anche la mia casa è una palafitta in legno con il tetto di paglia. La mia vita è molto semplice, ma anche molto faticosa. La difficoltà, per chi come me è cresciuto in occidente, sta nella mancanza di comfort. Ma è proprio questo uno dei motivi per cui sono determinata a lottare, insieme ai nativi, per il miglioramento delle condizioni di vita in Amazzonia».

Emanuela Evangelista, 55 anni, biologa e attivista nata a Lanuvio, un piccolo paese vicino a Roma, è l’unica occidentale a vivere in un villaggio di sessanta abitanti nel cuore della foresta amazzonica. Nel 2013, la biologa romana si è trasferita nel piccolo villaggio di Xixuaú, sulle sponde del rio Jauaperi. Da anni lì Evangelista si impegna nella difesa dell’Amazzonia e in generale nella sensibilizzazione alla lotta contro il cambiamento climatico.

Al momento sta lavorando a Together we plant the future, un progetto pilota triennale che promuoverà la conservazione e il ripristino ecologico, sostenendo al contempo lo sviluppo socio-economico nella regione amazzonica in Brasile. Il progetto, avviato lo scorso maggio, è nato dalla partnership tra Suzano, il più grande produttore mondiale di polpa di cellulosa, e Sofidel, leader nella produzione di carta tissue (noto per il marchio Regina), e sarà realizzato con il supporto e l’implementazione sul campo di Iabs, l’Istituto brasiliano per lo sviluppo e la sostenibilità, e di Amazônia Onlus, un’associazione italiana senza scopo di lucro, attiva nella difesa della foresta e delle popolazioni dell’Amazzonia, fondata vent’anni fa proprio da Evangelista.

Un corridoio di biodiversità

«Il progetto ha un obiettivo principale, contribuire a mitigare la crisi climatica, la crisi più importante che stiamo vivendo, attraverso la protezione della più grande foresta tropicale che ci è rimasta sul pianeta, l’Amazzonia. Nello specifico, il progetto contribuirà al ripristino delle foreste, alla conservazione dell’ambiente, all’incremento del reddito e al miglioramento della qualità di vita delle popolazioni locali che vivono nella regione in cui si va a intervenire, cioè quella a cavallo del confine tra gli stati brasiliani di Maranhão e Para», spiega Evangelista, ambassador di Together we plant the future.

«L’Amazzonia è abitata da 47 milioni di abitanti, più della metà della quale vive sotto la soglia di povertà. Dobbiamo quindi sollevare dalla povertà le 1.400 famiglie di agricoltori che vivono nella regione interessata, perché anche la loro pressione sull’ambiente diminuisca. Questo lo si fa attraverso tecniche specifiche al fine di generare reddito, tra cui l’agroforestazione, ossia riforestare imitando i meccanismi della foresta. Nella prima fase, il progetto quindi aumenterà la produttività agricola, l’apicoltura, la coltivazione e commercializzazione di specie autoctone e differenziate come le bacche di açaí e le noci di cocco babassu. Attraverso la combinazione tra il ripristino degli habitat naturali e i sistemi agroforestali sostenibili, verrà creato un importante corridoio di biodiversità per mettere in collegamento aree di foresta intatte».

Il corridoio di biodiversità andrà a beneficio di una serie di specie autoctone che subiscono l’impatto della frammentazione degli habitat, per cui la foresta è incapace di svolgere le sue funzioni principali.

Foreste amazzoniche

«Bisogna tener presente che l’Amazzonia è una volta e mezza l’Unione europea, è uno spazio enorme ed eterogeneo. Perciò bisognerebbe parlare di foreste amazzoniche al plurale». Ogni area dunque è minacciata da problemi diversi. «Deforestazione e degrado forestale, taglio forestale dovuto all’allevamento bovino o alla monocultura di soia, oggi tanto richiesta in occidente, lo sfruttamento, il bracconaggio di specie animali pregiate destinate al consumo locale, come le tartarughe d’acqua, o pappagalli e rettili per il traffico internazionale».

E le conseguenze sull’intero pianeta sono catastrofiche e a brevissimo termine. «Andando avanti a questo ritmo, business as usual, all’Amazzonia restano 15-30 anni di sopravvivenza. Si arriverà a un tipping point, un momento irreversibile in cui all’Amazzonia mancherà l’acqua che lei stessa produce. Quindi si creerà un ecosistema arido molto simile a quello della savana. In realtà noi sul campo rileviamo già alcuni fenomeni, dagli incendi alla mortalità degli alberi, più alta del 20-30 per cento, per stress idrico».

La prospettiva si fa inquietante se pensiamo che l’Amazzonia è «un bioma da cui dipende l’esistenza di tutta l’umanità, ma anche la cui distruzione dipende da tutta l’umanità. Non sono solo i brasiliani che la stanno distruggendo, siamo tutti responsabili, italiani compresi». Quel che è certo è che non si fa abbastanza per proteggerla, «ma la buona notizia è che oggi sappiamo esattamente cosa fare».

Nulla manca veramente

Inarrestabile, Evangelista racconta il suo impegno in Amazzonia cominciato 24 anni fa. «Sono arrivata per una ricerca scientifica sulla lontra gigante, una specie a rischio di estinzione a causa del commercio della sua pelliccia. Ho viaggiato con ex cacciatori, vivendo lunghi periodi a contatto con popolazioni tradizionali. Poi nel tempo mi sono resa conto che se c’era una specie minacciata dovevo occuparmi del suo habitat, per proteggere il suo habitat dovevo occuparmi di sostenere le popolazioni locali. Cosi è nata Amazônia Onlus».

Da allora questa terra non smette di affascinarla. «Per una biologa è incredibile poter osservare tanta ricchezza della vita e biodiversità. Vivo un rapporto diretto con la natura, questo è affascinante ma allo stesso tempo rende la vita quotidiana complicata. Quello che trovo ancora oggi molto interessante è il sentimento di vulnerabilità e l’umiltà che l’Amazzonia insegna, cosa che trovo si sia persa nel nostro mondo civilizzato. Siamo convinti di riuscire a controllare tutto, anche se negli ultimi anni il Covid e la crisi climatica sono riusciti a mettere un po’ in crisi questa nostra convinzione. Invece chi vive in Amazzonia non l’ha mai perso. Vivere in contatto con la natura fa sentire costantemente vulnerabili, dipendenti e si tende naturalmente a portare rispetto per chi è più grande, cioè la natura. Per me questo è l’incanto dell’Amazzonia. Ma non mi piace darne una visione romantica, è comunque un luogo ostile, dove si vive con fatica».

Evangelista cerca di farci immaginare quel mondo remoto a cui, nonostante tutto, si è abituata. «Ormai mi sento a casa qui, al di là dell’ironia che facciamo sul fatto che non diventerò mai una di loro, perché non riuscirò mai ad avere la loro vista e il loro udito. In questi anni, nonostante abbia recuperato molto dei miei sensi, rimango cieca e sorda come una gringa, così mi prendono in giro. Loro sono in grado di sentire una barca in arrivo da chilometri di distanza».

In quella terra per noi ai confini del mondo ad ogni modo Emanuela si è perfettamente integrata. «Ogni tanto il pensiero va a una buona pizza o a un bicchiere di vino. Ma più che altro sento mancanza dell’Amazzonia quando sono in Italia: rientrare nel mondo rumoroso e cementificato in cui sono cresciuta mi fa provare nostalgia di quel silenzio, di quella pace, di quel verde. Quando sono in Amazzonia, invece, è difficile che qualcosa mi manchi».

Sono le 10 del mattino ed Emanuela deve andare ad accogliere alcuni francesi appena arrivati per un progetto di ecoturismo.

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