Per parlare di disuguaglianze nel Medioevo non c’è che l’imbarazzo della scelta quanto a temi da indicare se non da approfondire. Era una società di ineguali fortemente gerarchizzata. Scelgo di accostarmi all’argomento con un esempio: poniamo che una donna del XIV o XV secolo, desiderando farsi confezionare un abito, si recasse dal sarto. Per prima cosa doveva dichiarare la sua condizione sociale precisando se il marito era un nobile, un cavaliere, un dottore in medicina o in legge oppure un artigiano e in quest’ultimo caso che tipo di artigiano.

La donna non aveva una propria dimensione sociale (dunque ineguale agli uomini) ma assumeva quella del marito e a seconda della posizione di quest’ultimo aveva diritto a esibire l’uno o l’altro tessuto nella veste, gli uni o gli altri decori, una precisa larghezza delle maniche o lunghezza dello strascico, da un braccio (circa 60 centimetri) a due terzi di braccio, mezzo braccio o un terzo di braccio a seconda della posizione sociale del marito o del padre. Più ineguali di così!

Ineguali al primo sguardo: per nascita, per status, per condizione economica ma anche per posizione personale: nubende, spose nei primi anni di matrimonio, spose mature, vedove. Le donne di malaffare (distinte in tre diverse categorie) erano tenute a indossare precisi segni di riconoscimento, così gli ebrei, uomini e donne, resi distinguibili da una rotella gialla o da altro segno (la prima stella di David compare allora anche se non era diffusa) in un ambito cittadino nel quale tutti o quasi erano riconoscibili.

Tutti diversi ma non liberamente diversi bensì tutti distinguibili per categorie e condizioni personali o morali. Restando nel tema si può aggiungere che per secoli, dalla metà del Duecento alla fine del Settecento si sono continuate ad emanare nelle città piccole e grandi d’Italia ma in realtà di tutta Europa corpi di leggi, dette suntuarie, che disciplinavano le apparenze: indicavano cioè cosa si poteva indossare riferendosi quasi esclusivamente alle donne. Categoria per categoria era prescritto tipo e colore del tessuto, numero e qualità dei complementi, numero e tipologia dei gioielli e via precisando.

Ogni prescrizione era accompagnata dall’indicazione della multa da applicare a chi disattendeva l’obbligo. Se ne ricava che pagando una multa era possibile esibire un capo o un ornamento non spettante al gruppo sociale di appartenenza. Come intendere ciò? È stato inteso come una forma di democrazia a pagamento: è vero che non c’era libertà di scegliere quello che piaceva ma, pagando, si poteva esibire l’abito preferito al quale non si aveva diritto per ceto.

Il tema ci tuffa nella società comunale che prevedeva e curava gerarchia e disuguaglianza ma che riconosceva qualche spazio di libertà a chi se la poteva comperare. Di nuovo la disuguaglianza è al centro. Una disuguaglianza gestita, oggi si direbbe, che prevedeva qualche soddisfazione estetica, per rimanere in argomento, per tutte le fasce sociali: se alle donne di condizione elevata era concesso il prezioso tessuto di seta denominato sciamito a quelle di categorie via via inferiori erano assegnati tessuti serici meno importanti e alle donne del contado ameno qualche nastro di seta.

Si trattava dunque di disuguaglianze estetiche che sottolineavano disuguaglianze personali e sociali ma a tutti o quasi era concessa qualche soddisfazione. Una disuguaglianza governata, manutenuta che consentiva di leggere la popolazione cittadina quasi seguendo una mappa, salvo i casi di superamento dei limiti imposti accettando di pagare multe o condoni preventivi.

Una visione complessiva

Sta di fatto che la moglie di un fornaio non poteva vestire come quella di un medico e che certi ornamenti non si potevano applicare a qualsiasi parte del corpo giacchè gerarchia e disuguaglianza valevano anche a questo riguardo e la testa meritava i più preziosi decori certamente di maggior valore rispetto a quelli concessi per i piedi. Per non dire della disuguaglianza, sempre in materia di apparenze, fra uomini e donne. Raramente le leggi si sono occupate degli uomini che, se ne ricava, erano più liberi nel fare le loro scelte.

Mi sono limitata a riferire quello che è accaduto per secoli in un ambito relativamente ristretto ma significativo: perché gli abiti erano fra i pochi beni presenti nelle case, erano una parte cospicua delle doti delle fanciulle ed erano uno dei pochi modi concessi alle donne per rendersi socialmente visibili. Visibili sì ma nella disuguaglianza e nella gerarchia. Ineguali ma compresi in una visione complessiva.

Ho affrontato un tema ristretto (anche se il fenomeno è stato di vasta portata) eppure anche solo da questo limitato angolo di visuale appare un medioevo più complesso e ideativo di quanto comunemente si creda ed appare tutta la complessità della questioni della disuguaglianza fatta di dichiarazioni e di realtà di fatto. Le posizioni teoriche contavano sì ma la fattualità spesso superava le teorie.

Teniamoci cara la dichiarazione dell’”egalitè” affermata alla fine del Settecento quando, non a caso, è cessata l’emanazione di leggi suntuarie, ma non possiamo certo negare che militano contro questo principio le ragioni della povertà, della privazione di conoscenze anche dei propri teorici diritti. Il medioevo della diseguaglianza è stato anche il medioevo della visione di una società di diversi previsti in un quadro complessivo in cui ognuno aveva una funzione e un senso e nel quale era possibile, sebbene non facile, cambiare posizionamento. Medioevo della disuguaglianza sì ma da conoscere meglio e da non disconoscere come epoca matriciale di posizioni e pensieri tutt’altro che oscuri.

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