L’ultima volta era successo 13 anni fa, nella primavera del 2011, poche settimane prima che i mercati finanziari venissero investiti dalla crisi del debito sovrano. A quei tempi, anche il Monte dei Paschi se la passava male, ma riuscì comunque a premiare i soci con un dividendo. Da allora più nulla, anzi, peggio, crolli in Borsa, perdite miliardarie, inchieste penali e il salvataggio a spese dello Stato per evitare il crac.

L’incubo non è ancora finito, ma intanto la banca senese ha mandato un messaggio positivo agli investitori, la conferma che la rimonta è possibile. Già, perché dopo un lunghissimo digiuno, quest’anno gli azionisti di Mps riceveranno un dividendo. L’istituto guidato dall’amministratore delegato Luigi Lovaglio ha reso noti i risultati del 2023, chiusi con profitti per 2 miliardi, annunciando che 315 milioni verranno distribuiti ai soci. Tra questi c’è anche lo Stato, che controlla una quota del 40 per cento circa (39,2). Il Tesoro, quindi, incasserà poco più di 120 milioni.

Privatizzazione

Poca cosa, certo, rispetto ai 7 miliardi di fondi pubblici versati negli ultimi sette anni per tenere a galla la banca. Va ricordato, però, che a novembre, il ministero dell’Economia ha piazzato sul mercato il 20 per cento circa del Monte. Questo collocamento a sorpresa, concluso nel giro di poche ore, ha fruttato circa 920 milioni che vanno ad aggiungersi ai 120 milioni che arriveranno sotto forma di dividendi. In totale, quindi, il governo può già mettere all’attivo più di un miliardo alla voce Mps nella speranza di riuscire a completare la privatizzazione dell’istituto, rispettando così gli impegni presi con la Commissione di Bruxelles.

Nelle ambizioni di Giorgia Meloni, il Monte dei Paschi dovrebbe entrare a far parte di un terzo polo bancario nazionale, da affiancare a Intesa e UniCredit. Il problema, per il governo, resta quello di sempre visto che né Banco Bpm né Bper, cioè i principali candidati alle nozze con Siena, sembrano interessati. Intanto, però, lo scenario è cambiato. Mps non più bisogno di essere salvato e quindi la privatizzazione potrà essere gestita con meno affanno. Va detto che ben pochi tra gli analisti si aspettavamo un simile boom degli utili per il Monte.

I risultati della ristrutturazione avviata dall’ad Lovaglio, con l’uscita tra l’altro di quasi 5 mila dipendenti (ne restano 16.700), sono stati amplificati dalla velocissima ascesa dei tassi a partire da metà 2022. E così, l’anno scorso, i conti di Mps hanno fatto segnare un balzo del 49 per cento alla voce margine d’interesse, che misura l’andamento dell’attività bancaria in senso stretto, cioè depositi e prestiti.

Fiume di denaro

La dinamica è la stessa che ha innescato il boom di profitti delle due più grandi banche italiane, Intesa e UniCredit. La prima martedì ha annunciato un risultato netto per il 2023 di 7,7 miliardi in crescita del 76 per cento rispetto all’anno precedente. UniCredit, che ha reso noti i conti a inizio settimana, è arrivata a 8,6 miliardi di utili, il 53 per cento in più del 2022. Un fiume di denaro che verrà in gran parte riversato ai soci, visto che Intesa ha deliberato la distribuzione di 5,4 miliardi sotto forma di dividendi (2,6 miliardi di acconto già pagato a novembre), mentre la cedola annunciata da UniCredit ammonta in totale a 3 miliardi.

Come previsto entrambi gli istituti hanno scelto di non pagare la tassa sugli extraprofitti e hanno invece sfruttato la possibilità offerta dalla legge di mettere a riserva un importo pari a 2,5 volte l’imposta.

Le due banche hanno quindi rafforzato il patrimonio, mentre il governo è rimasto a secco di proventi. Vale lo stesso discorso per il resto del sistema bancario, che ha respinto al mittente la tassa supplementare. Anche Mps, una banca controllata dallo Stato, ha neutralizzato il balzello inventato dal governo e ha invece scelto di mettere a riserva 310 milioni.

Conte all’attacco

Sul tema degli extraprofitti è tornato alla carica il leader dei Cinque stelle, Giuseppe Conte. «A Giorgia Meloni viene la tremarella con le banche», ha tuonato Conte in un video in cui accusa la presidente del Consiglio di essersi rimangiata le promesse sulla tassazione degli utili degli istituti di credito, per poi concludere che «non ricaveremo neanche un euro da questi utili da distribuire alla collettività».

Non è proprio così, a dire il vero. Già, perché il boom dei profitti, com’è normale, si è tradotto anche in un aumento del gettito fiscale per lo Stato. Intesa ha reso noto di “aver generato” imposte per 4,6 miliardi, in aumento di 1,4 miliardi rispetto al 2022, per effetto della crescita degli interessi netti.

Anche per UniCredit la somma da destinare al fisco è aumentata, passando da 819 milioni a 1,9 miliardi. In questo caso però va considerato che l’istituto milanese realizza in Italia meno della metà dei ricavi e quindi una parte importante delle imposte viene pagata dalle filiali con base all’estero.

A conti fatti, quindi, le banche sono riuscite a evitare la tagliola della tassa sugli extraprofitti, ma il danno per l’erario finirà per rivelarsi inferiore a quanto paventato da principio. Senza contare che verrà tassato anche il fiume di dividendi distribuito ai soci. Come dire che anche il fisco, alla fine, riuscirà a cavalcare il boom delle banche.

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