Si discute molto di lavoro povero, ma si fa molto meno, per non dire nulla, per contrastarlo. Per fare, e fare bene, è comunque utile avere le idee chiare sul fenomeno, sulla sua estensione, sulle sue caratteristiche e sulle circostanze da cui dipende.

Con l’obiettivo di portare un po’ di chiarezza esaminiamo alcuni dati, desunti da un recente studio di Bavaro e Raitano pubblicato su Structural Change and Economic Dynamics. Lo studio si basa su un ampio campione di fonte amministrativa Inps per i dipendenti del settore privato (con l’esclusione di lavoratori agricoli e domestici), e il periodo coperto non è breve: si va dal 1990 al 2018.

Il primo elemento da tenere presente riguarda i grandi cambiamenti strutturali intervenuti nel lavoro all’interno del settore privato italiano. Il dato più rilevante al riguardo è quello relativo alla crescita abnorme del lavoro non standard, soprattutto part time. La quota di dipendenti con un contratto a termine è aumentata dal 12,1 al 27,3 per cento fra il 1998 e il 2018, e quella dei part-timers addirittura dal 4,1 al 30,2 per cento fra il 1990 e il 2018.

Il fenomeno del part time va trattato con cautela. Da una parte, la sua crescita potrebbe nascondere un maggior ricorso da parte delle imprese al “lavoro grigio”, compensato con “fuori busta”, dunque in modo illegale. I compensi “fuori busta”, spesso di importo assai limitato, se, da un lato, consentono ai lavoratori di elevare il proprio reddito, dall’altro li lasciano con scarse tutele sociali perché l’accesso alle prestazioni del welfare e la loro entità dipende dai contributi versati e, dunque, dai salari registrati. La pandemia ha reso tutto ciò molto evidente. Dall’altra parte, il lavoro a tempo parziale potrebbe dipendere dalle preferenze, ad esempio di chi gode di fonti aggiuntive di reddito o ha vincoli connessi alla cura familiare. Ma, al di là di ciò, dalle indagini emerge che nel nostro paese è molto alto e crescente il part time involontario, cosicché la riduzione delle ore lavorate associata alla maggiore diffusione dei contratti part time costituisce, per un’ampia quota di occupati, una condizione limitante, subita da uomini e donne che vorrebbero lavorare e guadagnare di più.

Dati allarmanti

In questo quadro, i risultati relativi alle retribuzioni appaiono molto preoccupanti: la quota di individui con retribuzioni annue lorde inferiori al 60 per cento di quella mediana (soglia che si prende generalmente a riferimento nelle analisi di povertà e relativa e che in Italia corrisponde a una retribuzione in valore reale molto bassa, attualmente intorno agli 11.500 euro annui) è cresciuta dal 26,7 per cento al 31,1 per cento nel periodo 1990-2018. Nello stesso periodo la quota di coloro che hanno percepito, lavorando continuativamente, una paga annua che implica un salario orario non superiore a 9 euro (il che, assumendo 38 ore di lavoro a settimana, vuol dire una retribuzione lorda annua di circa 17.800 euro) è aumentata dal 39,2 al 46,4 per cento. Ricordiamo che la soglia di 9 euro all’ora è considerata “di dignità” nella proposta di salario minimo che era stata presentata dalle opposizioni in parlamento.

Informazioni di grande interesse le fornisce, poi, la stima di quale sarebbe stata la quota di lavoratori a basso salario guardando alle retribuzione settimanali full-time equivalent (ovvero trattando i part-timers come se avessero lavorato a tempo pieno). Queste quote, nel periodo considerato, sono rimaste sostanzialmente costanti, e ciò segnala che il ruolo principale nella tendenza alla maggiore diffusione delle basse retribuzioni negli scorsi decenni lo ha avuto la riduzione del numero di ore lavorate dai lavoratori meno pagati a causa della diffusione sempre maggiore dei contratti a tempo parziale. In ogni caso, la quota di lavoratori e lavoratrici che percepiscono salari bassi è molto rilevante anche quando ci si concentra sui salari settimanali full-time equivalent: l’incidenza delle basse retribuzioni era del 6,9 per cento nel 2018 con riferimento alla soglia del 60 per cento della mediana e del 19,8 per cento quando la linea dei bassi salari viene resa equivalente a un salario lordo di 9 euro l’ora.

Questi risultati possono portare informazioni molto utili nel dibattito, piuttosto polarizzato, sul salario minimo, che si concentra sulla definizione di un tetto vincolante per la retribuzione oraria, trascurando le questioni legate alla quantità di lavoro e, soprattutto, al drammatico aumento del part time involontario, che, come visto, incide moltissimo sulle tendenze delle basse retribuzioni nel nostro paese.

In base a questa prospettiva, un aumento dei minimi – da realizzarsi attraverso l’introduzione del salario minimo legale o il rafforzamento del potere contrattuale dei sindacati – appare una condizione necessaria per migliorare gli standard di vita dei lavoratori a bassa retribuzione. Ma non è sufficiente. Il salario minimo da solo non basta, occorre una strategia più complessiva, idonea, in primo luogo, ad accrescere la quantità di lavoro che gli individui riescono a prestare in un anno.

Tale strategia deve, più in generale, prevedere misure predistributive in grado di incidere, cioè, sulla disuguaglianza che si crea nel mercato del lavoro, e affiancare a esse politiche redistributive efficaci e politiche macroeconomiche e industriali volte a migliorare la “qualità” della domanda di lavoro. In mancanza di ciò e di un rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori e dei sindacati si potrebbe correre il rischio concreto che le imprese compensino i costi legati all’introduzione di un salario minimo con la riduzione (quantomeno formale) del numero di ore lavorate dai dipendenti.

La lotta ai bassi salari non può quindi basarsi su un unico strumento come il salario minimo, per quanto questo sia rilevante e assuma anche una valenza simbolica.

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