Per lo scrittore autentico la violenza (nelle storie, si intende) non è mai fine a sé stessa, ma serve a rivelare chi siamo. Riconduce i personaggi alla realtà, proprio così, perché la realtà è un luogo dove dobbiamo essere ricondotti a caro prezzo. Questo non è un mio pensiero, ma è di Flannery O’Connor, ed è espresso nel saggio sulla scrittura Nel territorio del diavolo. Per dirla in altri termini: «L’uomo posto nella situazione violenta rivela i tratti meno superflui della sua personalità».

Il prezzo da pagare per la realtà, il superfluo del quale ci dobbiamo disfare, sono concetti di natura spirituale che hanno, per O’Connor, una derivazione religiosa. Nel momento di massima tensione, i personaggi, messi di fronte alla realtà cruda della violenza che stanno per subire, possono essere visitati dalla grazia divina, come i martiri.

Oppure, se preferiamo un linguaggio laico, possono compiere gesti più grandi di loro, gesti di cui non comprendiamo il significato e che magari appaiono irrazionali, ma la cui direzione finale è l’aspirazione a qualcosa di grande. Gesti precisi, soprattutto. Liberi dal superfluo. Gesti che ci fanno intravedere una possibilità di salvezza (che non significa sopravvivenza). Il prezzo da pagare e la cancellazione del superfluo sono anche, ovviamente, metafore economiche fortissime: il prezzo è il risultato di una situazione di equilibrio, la cancellazione del superfluo è una questione di efficienza.

Serie tv

Tornando alle storie e alla violenza, penso alle serie tv sui crimini. Le serie tivù forniscono una notevole possibilità di approfondimento dei personaggi (quindi dell’umano), anzi spesso si fondano su questa possibilità.

Forse non è un caso che il crimine, la morte e il male (di fronte al quale l’eroe reagisce con atti di grazia) funzionino così bene nelle serie e siano così apprezzati: amiamo i momenti di massima tensione e le rivelazioni cristalline dell’animo. Anche se talvolta, nella ripetitività dei contenuti televisivi che dopo un po’ iniziano a somigliarsi troppo, la violenza perde forza.

Il personaggio posto nell’ennesima situazione violenta rivela per l’ennesima volta i tratti meno superflui della sua ennesima personalità. Più che avvolti dalla grazia, ci ritroviamo con una storia che nella banalità appare sgraziata.

Naturalmente preferiamo, nella vita reale, non avere a che fare con la violenza. Ci auguriamo proprio di evitarla. Nessuno di noi vorrebbe rischiare di essere una vittima al solo scopo di poter accedere a qualcosa di grande. La violenza reale (non narrativa) provoca in noi un senso di orrore profondo e senza fine, e di dolore per chi la subisce.

Lasciando stare dunque la violenza come improbabile scorciatoia al raggiungimento di stati superiori, resta da chiedersi se sia interessante provare a eliminare il superfluo dalle nostre vite, per vederci più chiaramente e per sentirci in qualche modo illuminati. È davvero necessario? In realtà la maggioranza dei problemi quotidiani può essere risolta in due modi: aggiungendo o sottraendo.

Possiamo mirare ad avere di più, per soddisfare meglio i nostri bisogni, ma possiamo anche mirare ad avere meno bisogni, per riuscire a vivere con meno. Possiamo risolvere un’asimmetria fra due immagini quasi uguali aggiungendo un elemento mancante, ma possiamo risolverla anche sottraendo un elemento di troppo. Non sempre le due soluzioni sono possibili, ma di certo entrambe possono essere prese in considerazione, e non sono sbagliate a priori.

Il teorema del maialino

Alcuni studi di psicologia comportamentale hanno mostrato come siamo più portati ad aggiungere che a sottrarre, lo troviamo più semplice, forse perché sottrarre richiede uno sforzo di maggiore comprensione delle parti in gioco e del tutto. In un mondo di risorse scarse e di problematiche ambientali, questo è un tema rilevante.

Un principio molto conosciuto di architettura e design è “Less is more”, cioè “di meno è meglio”: invece di occuparci di aggiungere l’ennesimo ninnolo per decorare le nostre case, possiamo decidere di eliminare tutti i ninnoli inutili. Togliere è più difficile, ma è meglio.

Però magari non siamo d’accordo, e pensiamo che la bellezza sia vivere in una giungla di oggetti (certo deve essere una giungla molto ben riuscita, e poi qualcuno deve spolverare). Mi incuriosisce che l’architettura abbia prodotto il principio “di meno è meglio”, mentre la microeconomia abbia prodotto, nella teoria assiomatica delle preferenze del consumatore, il principio di non sazietà: “di più è meglio”. Quello che all’università chiamavamo, con leggerezza, il teorema del maialino.

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