La partita decisiva sull’Ilva si sta giocando a porte chiuse, lontano dai riflettori della cronaca. È la partita ambientale, dal cui esito dipende il destino della più grande acciaieria d’Europa, snodo decisivo del sistema industriale del paese.

E qui, se possibile, il futuro prossimo appare ancora più nero, perché i soldi non ci sono e il governo sembra incapace di gestire la situazione. Peggio ancora, la gara per la realizzazione di un nuovo impianto per la conversione verde di Ilva è finita al centro di un contenzioso tra un grande gruppo italiano del calibro di Danieli e l’azienda austriaca Paul Wurth.

Lo scontro ruota attorno a Dri, una società pubblica con unico azionista Invitalia. In sostanza, nelle settimane scorse Danieli ha presentato esposti all’Antitrust, all’Autorità Anticorruzione (Anac) e al Tar per denunciare una serie di presunte irregolarità nella gara per l’aggiudicazione dei lavori per la costruzione di un impianto di ferro preridotto. Un impianto fondamentale per la riconversione verde dell’Ilva.

Carte bollate

Non bastasse questo ingarbugliato contenzioso, Dri rischia grosso anche per via di un inatteso dietro front del governo, che ha rinunciato a un miliardo di fondi europei inseriti nel Pnnr proprio allo scopo di finanziare l’impianto della società pubblica.

A questo punto, quindi, tutto è fermo, ma per illuminare con chiarezza lo stato delle cose conviene descrivere il contesto in cui è maturata questa storia, ennesima pietra d’inciampo sul cammino già molto accidentato dell’Ilva. Infatti, sospeso tra la minaccia dell’amministrazione straordinaria e la vendita, per ora solo ipotetica, a un nuovo ipotetico azionista privato, lo stabilimento di Taranto rischia comunque di arrivare al capolinea entro pochi anni, costretto alla chiusura dal Green Deal dell’Unione Europea.

Già, perché dal 2028 i produttori di acciaio dovranno farsi carico di costi supplementari in proporzione alle loro emissioni di CO2. Questo significa che i conti dell’impianto pugliese sarebbero insostenibili per qualunque investitore, pubblico e privato che sia.

Una via d’uscita esiste. Si chiama decarbonizzazione. Significa che Ilva dovrebbe progressivamente ridurre l’utilizzo di carbone per i suoi altoforni, che verrebbero in parte sostituiti da forni elettrici alimentati con combustibili diversi e meno inquinanti.

Progetto ambizioso

Questo era esattamente il percorso immaginato nel 2020, all’epoca del governo Conte 2, quando con il nuovo piano industriale firmato da Mittal e dall’azionista pubblico Invitalia venne decisa la creazione della società Dri (Direct reduced iron) che diventa operativa a febbraio del 2022.

Alla presidenza è designato Franco Bernabè, che siede al vertice anche di Acciaierie d’Italia, a cui fanno capo tutti gli impianti ex Ilva. Per il ruolo di amministratore delegato viene invece scelto Stefano Cao, un manager di lungo corso dalla lunga carriera in Eni. La missione affidata alla neonata azienda era a dir poco ambiziosa: produrre entro il 2026 almeno 2 milioni di tonnellate l’anno di preridotto destinato all’acciaieria di Taranto e in grado, secondo i piani di partenza, di ridurre del 50 per cento le emissioni di CO2.

«Il processo è complesso, ma ce la faremo», si sbilanciò Cao in un’intervista neppure un anno fa. Per passare dalle parole ai fatti, però, a Dri serviva una fabbrica e qui la storia ha subito preso una brutta piega.

A febbraio del 2023 Danieli presenta un’offerta per la “progettazione, costruzione e consegna finale” di un impianto per la riduzione diretta di ferro nell’area di Taranto. L’azienda friulana ha sviluppato una tecnologia in grado di utilizzare gas e anche idrogeno, in modo da ridurre in modo sostanziale le emissioni di CO2. La scelta di Dri, però, è caduta sull’offerta concorrente, quella di Paul Wurth.

Nasce da qui il contenzioso, perché, sostiene Danieli, la società controllata da Invitalia non ha svolto la gara secondo la procedura prevista dal Codice per gli impianti pubblici. Avrebbe dovuto farlo – è la tesi – in quanto soggetto attuatore del Pnrr, che finanzia l’operazione. Inoltre, dagli atti emerge che l’azienda austriaca avrebbe sottoscritto con Dri un contratto preparatorio, cosiddetto di “Early Works”, per la semplice progettazione dell’impianto e non per la sua realizzazione.

Non solo. A pagamento di questo contratto sarebbero stati utilizzati 8 milioni attingendo alle casse della stessa Dri a controllo statale. Motivo per cui Danieli paventa anche un danno erariale derivante dal mancato rispetto delle procedure per la gara a evidenza pubblica.

Soldi spariti

L’udienza del Tar di Lecce che il 30 novembre scorso avrebbe dovuto esaminare il ricorso di Danieli è stata rinviata al prossimo 13 marzo. Intanto però lo scenario è già cambiato, perché il ministro Raffaele Fitto, al termine di una più ampia rinegoziazione con la Ue, ha sfilato dal Pnrr il miliardo destinato al progetto Dri, un progetto che secondo il governo “non sarebbe compatibile con le tempistiche del piano”. Dal ministero è arrivata la rassicurazione che finanziamenti “verranno reperiti da altre fonti”

Al momento, però, non c’è nessuna garanzia concreta che i soldi arriveranno in tempi brevi. Un’incognita, quest’ultima, che si somma a quelle che fin dall’inizio facevano dubitare alcuni esperti sulla realizzabilità della soluzione proposta da Dri.

L’impianto di preridotto dovrebbe infatti essere alimentato a gas, una materia prima che nonostante il forte ribasso delle quotazioni nell’ultimo anno ha prezzi ancora troppo elevati per garantire la convenienza di tutta l’operazione. L’alternativa sarebbe l’idrogeno, che però al momento resta più costoso del gas.

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