L’ingresso principale dell’Ilva (o ex Ilva, o Acciaierie d’Italia) a Taranto è ormai vecchieggiante e certo non somiglia affatto a quegli ingressi fastosi che segnano ogni industria che vuole ben comparire. Ma sono gli ingressi secondari, da cui pure passano ogni giorno ancora migliaia di operai, a dare un’idea più precisa di dove si stia andando: discariche di immondizia in ogni aiuola dei parcheggi, un’incuria generale che denuncia come, stringi stringi, a nessuno interessi nulla del futuro del nostro un tempo mega gioiello siderurgico, che ha prodotto fino a 10 milioni di tonnellate di acciaio all’anno: forse non è lecito aspettarsi parcheggi ombreggiati, ma almeno puliti sì.

Del resto, proprio quei parcheggi una volta erano mercatini affollatissimi, oggi non vedono più nemmeno un ambulante. Una delle alte ciminiere a strisce bianche e rosse manda ogni tanto dei grandi sbuffi di fumo: i beninformati dicono che è prevalentemente vapore acqueo, poco o niente di pericoloso. Altri fumi ed emissioni non se ne vedono, in questa giornata limpida in cui il vento del giorno precedente ha mosso il mare e reso nitido l’orizzonte. Gli stessi beninformati dicono che il fumo vero, quello rosso e cattivo, e le fiamme ancora si vedono, ma prevalentemente di notte e ormai neanche tanto spesso.

Questa Ilva, almeno da fuori, sembra una enorme balena spiaggiata e in agonia. Almeno, questo è l’effetto che fa a chi arriva da fuori con la voglia di capire cosa significhi oggi la presenza di un’industria in crisi rispetto alla città che così a lungo aveva puntato su di essa e che ora se ne sente in qualche modo tradita. Eppure, questo polo dà ancora lavoro, se comprendiamo anche l’indotto, ad almeno 15mila lavoratori, in prevalenza piuttosto giovani, e dunque a occhio e croce sostiene quasi 50.000 persone delle 250.000 che popolano la città e i suoi dintorni.

Il patto piange

Martedì scorso l’ennesimo passaggio a vuoto dell’assemblea dei soci ha visto i due azionisti, la multinazionale ArcelorMittal e lo Stato, rimpallarsi l’onere di riempire le casse dell’Ilva quel che tanto che basta, 320 milioni, indispensabili per non spegnere gli altiforni. Niente di fatto. Il braccio di ferro continua, tra la multinazionale che sembra più decisa ad abbandonare al suo destino l’azienda che ha contribuito ad affossare e la parte pubblica prigioniera di contraddizioni e contrasti in seno al governo

L’ex Ilva sta chiudendo, sembra a molti la conclusione, sia pure inespressa, di un convegno di Legambiente che si è tenuto venerdì 17 novembre sulla decarbonizzazione della siderurgia. Convegno importante, che ha cercato di tracciare le possibilità di rilancio produttivo, ma in sicurezza, con impianti meno inquinanti e usando energie rinnovabili, in un’ottica che abbia a cuore ambiente e salute, ed eviti la chiusura. Chiuda o non chiuda, però, i danni alla salute si stanno ancora registrando, nonostante la produzione sia scesa dai 9 milioni di tonnellate di acciaio dei tempi d’oro a meno di 3 milioni, e nonostante i parchi minerari (le montagne di minerali che vanno nella produzione, alte più di 20 metri) siano stati ricoperti con imponenti strutture, tipo campi da tennis per l’inverno, e finalmente non spolverino quasi più. E nonostante due altiforni su quattro siano sostanzialmente inattivi da ormai qualche anno.

Salute a rischio

Come ha ben chiarito al convegno la dottoressa Lucia Bisceglia, che monitora la situazione sanitaria a Taranto per conto della Regione Puglia e dell’Azienda sanitaria, Taranto è nettamente al primo posto rispetto alla provincia e alla regione sia per quanto riguarda i tumori (e le morti per tumore) che per quanto riguarda le patologie cardiovascolari e quelle respiratorie: sempre in vetta, sebbene i trend siano in diminuzione (ma meno che altrove). Quelli che invece tragicamente non sono in diminuzione sono i tumori dei bambini (in particolare leucemie), che tendono a crescere.

I dati sono pubblicati fino al 2017, ma vi sono dati in procinto di essere pubblicati per il 2019-2020; e sono stati anticipati anche quelli relativi al 2021-2022: sempre costanti nella loro negatività. Segno evidente che l’esposizione a polveri sottili e altri inquinanti continua a farsi sentire, con impatto sulla salute più pesante nelle aree più inquinate, perpetrando ingiustizie ambientali e sanitarie. E continuerà chissà fino a quando, visto che l’insorgenza di tumori non è immediata ma si manifesta anche molti anni dopo e sono a rischio anche le gravidanze e i bambini che verranno. Certo non per questa incapacità di leggere in prospettiva è lecito pensarla come una tragedia solo parzialmente “affievolita”.

Il progetto che non c’è

Nell’ultima parte della giornata di studio, quando hanno parlato i sindacati sulle prospettive da dare al grande impianto, sono emerse chiaramente contraddizioni, ma soprattutto incapacità di intravedere un piano generale che salvaguardi salute, ambiente e lavoro. Non sembra esserci nessuno che sappia misurarsi con l’entità della crisi. E quando hanno parlato esponenti dei sindacati non allineati per sottolineare la drammaticità del momento, gli esponenti della triplice, pur presenti ad alto livello, non hanno saputo fare altro che andarsene abbandonando il campo. Salvo ammettere, meno di una settimana dopo, che «il rischio di chiusura è ogni giorno più concreto», come dice il leader Fiom De Palma, «non essendoci gli investimenti necessari da parte della proprietà».

Manca dunque un progetto complessivo, anche da parte dei rappresentanti dei lavoratori, che sappia coniugare una possibile, sia pur difficile, ripresa e allo stesso tempo l’esigenza di fronteggiare i danni presenti e futuri all’ambiente e alla salute dell’intera popolazione tarantina. Ecco che il rischio chiusura è diventato concreto e palpabile. ArcelorMittal ha munto la vacca dei finanziamenti pubblici finché ha potuto, senza innovare o risanare, peggio di Riva, secondo molti. Ora si invoca il padrone pubblico come padrone unico così che esso possa garantire una uscita presidiata dagli ammortizzatori sociali per chissà quanti anni: stile Alitalia, per intenderci. Con la differenza che lì almeno c’è un interesse di acquisto da parte di un privato, qui non si intravede nessuno che possa o voglia accollarsi una enorme fabbrica con macchinari obsoleti, costi di produzione e gestione altissimi, compresi quelli relativi a una necessaria bonifica dell’estesissimo sito (quasi 16 chilometri quadrati), in prevalenza irrimediabilmente inquinato. E l’occupazione: già ora 6.000 addetti sono in cassa integrazione, altri se ne aggiungeranno, finché si rischia che al lavoro non rimangano che le guardie interne.

Il futuro di Taranto

Con quali ricadute per la bella città di Taranto? Anche su questo è difficile fare previsioni. Potrebbe esserci un incremento esponenziale della criminalità. Ma si potrebbe puntare anche a uno sviluppo del turismo, che già ora ha fatto buoni passi avanti traendo vantaggio dal boom salentino e da alcuni asset specifici, come il MarTa (Museo archeologico di Taranto), scrigno di innumerevoli tesori recentemente ristrutturato e risistemato. Oppure ripensare a un ritorno alla terra in chiave eco e green; oppure all’utilizzo delle competenze acquisite con l’Ilva da parte delle piccole imprese satelliti del pachiderma; o anche alla bonifica del sito in sé stesso, restituendo alla città migliaia di ettari da convertire in possibile terreno agricolo o semplicemente verde.

In fin dei conti l’intera Ruhr in Germania ha vissuto in passato la stessa crisi della siderurgia, ma ha saputo convertirsi in altre produzioni di beni e servizi. Ma, di nuovo, occorrerebbe un progetto complessivo, e nessuno sembra misurarsi con un compito così difficile.

La città pare non avere più voglia di combattere, nemmeno sul fronte della contraddizione lavoro contro salute. Proprio dieci anni fa, quando i giudici bloccarono prima gli altiforni e poi gli acciai stoccati al porto, quando l’Aia ridiede il via all’operatività della fabbrica grazie a un decreto governativo, la città si divise quasi a metà fra chi voleva la fabbrica aperta e chi diceva che era l’ora di chiuderla, non si poteva rimanere esposti ai rischi per la salute. Una divisione, certo, ma una divisione che lasciava constatare un interesse acceso e attivo della città.

Oggi Taranto sembra essere esausta, boccheggiante, e non voler più sentire parlare dell’acciaieria: sia quel che sia, interverranno gli ammortizzatori e poi si vedrà. La città che aveva affrontato la contraddizione fra salute e occupazione – per la prima volta in Italia in una grande fabbrica ancora aperta e produttiva, e per di più di quelle dimensioni: una delle prime fabbriche siderurgiche in Europa – mobilitando gli ingegni più capaci a livello nazionale, portando lo scontro sociale sia nella politica che nella giustizia, ora sembra essersi arresa.

Ma, se qualcuno avesse un’idea complessiva e la portasse avanti con ponderazione e decisione, magari potrebbe anche riprendersi.

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