Tutto dipende dalla guerra: l’economia europea è sospesa su un sottile crinale, ancora incerta tra ripresa post-Covid e recessione Putin. Se il conflitto in Ucraina, con le sue ricadute economiche, finisce in fretta, forse si riesce a preservare quello che resta del rimbalzo seguito alla pandemia. Altrimenti si metterà male davvero.

Le previsioni economiche di primavera presentate dal commissario agli Affari economici e monetari Paolo Gentiloni sembrano un esercizio di far vedere il bicchiere mezzo pieno, tanto che è lo stesso Gentiloni pare preoccupato che passi un messaggio troppo ottimistico. La crescita prevista per il 2022 per l’Ue è del 2,7 per cento, il commissario commenta così: «Sono consapevole che potrebbe sembrare positiva, tenuto conto dell’entità dello shock generato dalla guerra».

Eppure, precisa Gentiloni, di quei 2,7 punti di valore aggiunto ben 2 sono soltanto l’effetto del rimbalzo post-Covid, cioè una crescita che viene contabilizzata nel 2022 ma che è maturata lo scorso anno. La crescita netta del 2022 sarà soltanto lo 0,8 per cento circa, invece che un ben più solito 2,1 per cento atteso.

Equilibrio precario

L’equilibrio è molto fragile: oltre ai numeri indicati nelle previsioni, non disastrosi, bisogna considerare le ipotesi sulle quali sono stati calcolati. E lo scenario di analisi della Commissione è quello di un conflitto breve, con i prezzi dell’energia che si normalizzano presto e l’inflazione che smette di essere un problema. L’inflazione nell’area euro, quella di competenza della Banca centrale europea, è prevista al 6,1 per cento quest’anno ma soltanto al 2,7 il prossimo, non lontano dall’obiettivo del 2 per cento.

Una simile frenata avverrebbe senza scossoni o drammi: di solito l’inflazione cala così bruscamente quando le banche centrali alzano i tassi di interesse, rendono i finanziamenti più costosi, i mutui più gravosi per i debitori che hanno rate variabili, e quindi riducono la domanda.

Al punto che, spesso, la frenata della crescita si trasforma in una recessione, cioè in una riduzione del Pil. La Commissione scommette invece che la crescita europea resti quasi uguale anche nel 2023, un non eccitante 2,3 per cento, poco meno che il 2,7 del 2022 ma molto meglio che una recessione.

Questo scenario di atterraggio morbido si verifica soltanto se l’inflazione è tutta causata dal lato dell’offerta, cioè dipende da un provvisorio shock ai prezzi energetici che ha aumentato all’improvviso i costi per molte imprese le quali, quando hanno potuto, lo hanno trasferito sui prezzi finali. Senza però che i consumatori abbiano potuto negoziare salari più alti.

L’inflazione è temporanea e passerà in un attimo quando le tensioni geopolitiche saranno svanite? Prima di tutto è difficile capire se e quando si arriverà a una svolta in Ucraina, la Commissione non prende neppure in considerazione l’ipotesi che le cose possano addirittura peggiorare. E poi sono ormai due anni che la Commissione, la Bce e molte altre istituzioni europee e americane hanno sottovalutato l’inflazione, prima imputata all’improvvisa ripartenza dopo la pandemia che determinava una momentanea penuria di materie prime, e poi i rincari sono stati imputati soltanto ai prezzi dell’energia (che sono gran parte, è vero, ma presto o tardi pesanti aumenti di una voce così importante si trasmettono al resto dell’economia).

Cosa fanno i governi

La situazione della politica economica è anch’essa in un equilibrio precario: la Commissione nota che, nonostante la brusca frenata della crescita, il rapporto tra debito e Pil nell’Ue continuerà a migliorare, dall’89,7 per cento del 2021 all’85,2 del 2022. Una buona notizia, che però indica come i bilanci pubblici degli Stati Ue siano in una fase di ritorno alla normalità, dopo un paio d’anni di spese senza limiti contro la pandemia.

Anche perché con il progressivo ritiro delle banche centrali dagli acquisti straordinari di titoli (quantitative easing), i rendimenti richiesti dagli investitori per prestare soldi a stati molto indebitati tornano a salire: lo spread, cioè la differenza di rendimento tra titoli di Stato italiani e tedeschi a dieci anni, è ormai intorno ai 200 punti. Quando si è insediato Mario Draghi come presidente del Consiglio, a febbraio 2021, era meno della metà.

Oggi fare debito è più costoso che un anno fa, anche se ce ne sarebbe più bisogno perché il rimbalzo post-pandemia è stato soffocato dalla guerra di Putin. Eppure, quella stessa guerra minaccia anche le finanze pubbliche, perché se qualunque ipotesi ottimistica su inflazione, crescita e durata del conflitto non si verifica, i governi si troveranno alle prese con spese impreviste, più disoccupati e relativi sussidi, minori entrate fiscali. E dunque più debito a costi più alti.

Gli Stati Uniti sono sull’orlo di una recessione, alimentata anche da un’inflazione che rimane sopra l’8 per cento e costringe la banca centrale, la Federal Reserve, a una convinta politica di rialzi dei tassi, che presto potrebbe spingere la Bce ad analoghi aumenti del costo del denaro. Una replica del 2011, quando la Bce di Jean-Claude Trichet alzava i tassi per contenere l’inflazione senza capire che così avrebbe fatto esplodere la crisi del debito sovrano.

L’Italia, come sempre, è il paese dell’eurozona più esposto a questi shock perché ha alto debito e bassa crescita potenziale. Anche se nel 2022 la crescita attesa del 2,4 per cento è superiore all’1,6 della Germania. Ben magra soddisfazione, e comunque dovrebbe durare un anno soltanto.  

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