Il capitalismo italiano è come un ghiacciaio: sembra immobile, ma inesorabilmente si ritira. Fuori di metafora: soggetti e temi sono sempre gli stessi, mentre il resto del mondo si muove; ma ogni giorno il nostro mercato diventa sempre più asfittico.

Un disastro annunciato

Il consiglio di amministrazione di Tim ha proposto una propria lista per il rinnovo dei consiglieri che dovranno gestire la vendita della rete a KKR. In quell’occasione sono state fornite alcune indicazioni sulla società post cessione. Risultato: il titolo ha perso un quinto del valore. Tim ha tanto debito, e cresce poco; ha margini bassi e opera in un mercato fortemente concorrenziale: per sopravvivere, Vodafone e Fastweb (di Swisscom) hanno appena deciso di fondersi. Con la vendita della rete, Tim stima di scaricare 14,2 dei 25,6 miliardi di debiti che ha, ma per il mercato non basta.

Il problema però non è solo il debito, ma che alla nuova società della rete vanno anche i ricavi dell’accesso alla fibra, l’unica fonte di crescita per Tim: quelli da mobile in Italia sono scesi l’anno scorso del 7 per cento, contro il +3 del fisso. KKR è notoriamente un fondo con un elevato obiettivo di rendimento sugli investimenti che, dato il prezzo offerto, determina la quantità di debito cedibile e di ricavi da incassare. Se si scinde una società in declino e fortemente indebitata come Tim, non se ne possono creare due redditizie: alla finanza ancora non riesce moltiplicare pani e pesci.

Il consiglio uscente presenta alla prossima assemblea una propria lista di consiglieri da votare in blocco, che ha l’obiettivo di portare a termine la cessione della rete, con la benedizione del Governo. Lo stesso Governo che ha appena emanato il DDL Capitali dove, in caso di lista del consiglio, concede un enorme potere agli azionisti che non sostengono quella lista. Potrebbe succedere che, pur avendo la maggioranza relativa, la lista del consiglio non riesca ad avere la maggioranza dei consiglieri; o che anche l’amministratore delegato non venga nominato visto che il DDL richiede la votazione di ogni singolo membro della lista. Pensata per Generali, entrerà in vigore nel 2025. Il lato ironico è che se fosse in atto oggi avrebbe dato a Vivendi, che si oppone alla cessione della rete, col suo 24 per cento (contro il 5 di CDP), la possibilità di dominare il prossimo consiglio di Tim e bloccare la Rete Unica tanto cara al Governo. Un esempio di norma mal fatta.

Se non ora quando?

L’aumento dei tassi è stato una manna per gli utili delle banche, che hanno coperto gli azionisti di dividendi e buyback; generosità ricambiata con quotazioni in rialzo. Ne ha approfittato anche Mps che in 6 mesi è salito del 66 per cento, contro il 16 dell’indice di settore europeo. Il Tesoro detiene il 39 per cento di Mps, che deve vendere per far cassa e perché si è impegnato con la Commissione. Ma invece di vendere un pezzo alla volta, o brigare per creare il « terzo polo », dovrebbe approfittare del momento per cedere in blocco il 29 per cento (evitando l’Opa obbligatoria) tramite un’asta competitiva: la modalità più trasparente e più efficace per massimizzare il ricavato. Non credo che lo farà.

Quo vadis?

La morte di Silvio Berlusconi avrebbe potuto aprire una riflessione sul futuro di MFE (ex Mediaset). Invece si è parlato di spartizione dell’eredità e dei rapporti con la politica. Tutto molto interessante, ma MFE è un’azienda italiana in declino: capitalizza appena 1,3 miliardi, meno di metà di due anni fa; nel decennio al 2025 gli analisti stimano che perderà il 20 per cento del fatturato, e vedrà dimezzato il cash flow operativo, imponendo una riduzione degli investimenti.

In parte è dovuto al declino della televisione come forma di intrattenimento, e quindi come veicolo pubblicitario, in parte alla complessa struttura societaria in Olanda e al riacquisto di azioni proprie per blindare il controllo. Il risultato è un flottante (azioni liberamente disponibili) di appena 380 milioni: insufficiente per attirare i grandi investitori internazionali, e usare il mercato dei capitali per le acquisizioni indispensabili sia alla diversificazione sia alle economie di scala. Un altro ghiacciaio, che inesorabilmente si contrae.

La mano (visibile) del Governo

La Ion capital di Andrea Pignataro (servizi bancari e informazioni societarie) vuole acquistare Prelios (gestione dei crediti deteriorati). Lo fa tramite una complessa catena di società estere, poco trasparenti e con molto debito. Indiscrezioni riportano che il Governo possa usare il Golden Power per Prelios. Premesso che non ho simpatia per le strutture societarie opache, che servono solo a mascherare la leva finanziaria e la struttura proprietaria, l’eventuale eccesso di indebitamento è un problema delle banche che finanziano l’acquisizione, e finanziano i fondi che appaiono a monte nella struttura finanziaria del gruppo. Il Governo che cosa c’entra? L’uso arbitrario che sta facendo del Golden Power, interferendo nella vita delle imprese private, è il modo migliore per scoraggiare gli investitori, già diffidenti.

A volte ritornano

La vicenda Prelios ha riportato al centro delle attenzioni l’attivismo del suo Presidente, Fabrizio Palenzona, diventato Presidente della Fondazione CRT, che ha partecipazioni in Generali e Unicredit: riaccendendo così le indiscrezioni sul «risiko» per creare il campione nazionale di cui si parla almeno da 20 anni, e mettere al riparo Generali dalle mire straniere, sottraendola alla «tutela» di Mediobanca. Uno stucchevole deja vu. Immaginandomi banchiere di investimento, Unicredit dovrebbe lanciare un’Opa su Mediobanca, facilitata dall’adesione di Delfin e Caltagirone con il loro 25 per cento che, ai prezzi di mercato, diventerebbero il secondo azionista della banca dopo Black Rock.

Unicredit raggiungerebbe le dimensioni di Bnp, prima banca in Europa, acquisirebbe le redditizie attività di credito al consumo e di banca di investimento, oltre al 12 per cento di Generali, potendo così esercitare insieme a Delfin e Caltagirone col 29 per cento congiunto il controllo sulle attività attività di gestione e assicurazione (che oggi non ha).

Se poi questi ultimi conferissero le azioni Generali in Unicredit, la banca avrebbe il controllo del gruppo assicurativo senza dover lanciare un Opa; Delfin e Caltagirone diventerebbero primi azionisti del più grande gruppo europeo; Delfin valorizzerebbe la propria partecipazione, facendo felici gli eredi; il Governo brinderebbe al campione nazionale; e Palenzona al capolavoro delle sua lunga carriera.

C’è un però: Unicredit vale 88 per cento del patrimonio tangibile contro il 100 di Mediobanca, che però ha una minore redditività (stimata al 11 per cento contro l’14 di Unicredit). Ai prezzi di mercato quindi, l’opa distruggerebbe valore per gli azionisti di Unicredit, a meno di ipotizzare sinergie poco realistiche.

In più, difficilmente i soci di Mediobanca aderirebbero a un’offerta che non includa un premio di controllo per la quota in Generali. La costruzione di imperi soddisfa gli ego, ma molto spesso delude gli investitori; e la Bce accetterebbe malvolentieri che industriali abbiano la maggioranza relativa di una grande banca europea. Altro ghiacciaio.

Il fallimento del fallimento

Con Acciaierie d’Italia siamo al fallimento della società che gestisce il ramo di azienda nato dal fallimento di Ilva. Il Governo ha nominato i Commissari. Ma per fare che cosa? Come già scritto su queste colonne, la strada dell’acciaio meno inquinante è obbligata; le modalità di produzione alternative sono ben note, come le soluzioni che gli altri paesi stanno adottando.

La costante ovunque è che nessun privato potrà mai sostenere i costi della transizione, sia per la dimensione dei capitali necessari sia per l’insufficiente redditività prospettica. Senza una decisione netta su quale delle varie alternative il Governo vuole perseguire per l’acciaio di Taranto e senza i soldi dello Stato (che il Governo non ha preventivato) c’è il rischio che questo fallimento non sia l’ultimo.

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