Cosa farà l’Europa per rispondere al programma americano di investimenti nella transizione ambientale, sostenuto da forti incentivi pubblici, che attrae anche le imprese europee? E per contrastare il predominio cinese e asiatico nella produzione di tutto quanto è collegato alla transizione ambientale, dalle batterie ai pannelli solari, dalle pale eoliche ai semiconduttori, e ora anche le auto elettriche?

Il piano americano dovrebbe aver chiarito a Bruxelles e ai governi nazionali che la transizione ambientale richiede enormi capitali; e che questi debbano venire dai privati, perché gli stati non hanno abbastanza risorse; ma, senza un piano chiaro a livello europeo e forti incentivi pubblici comunitari, i privati non investono quanto sarebbe necessario.

Ma l’Europa non emulerà il piano americano. Non ci sono risorse comunitarie per finanziare gli incentivi, come hanno riconosciuto i vice presidenti della Commissione, Dombrovskis, Timmermans e Vestager sul Financial Times:  il fondo “sovranità” è solo futuribile, i soldi comunitari sono quelli del Pnrr; e arriveranno i fondi dell’aumento del costo dei certificati di emissione, ma solo nel 2030.

Così gli incentivi ricadranno sulle finanze pubbliche dei vari paesi dell’Unione, allargando le disparità, vista la diversa capacità di spesa. Si stima che la Germania abbia già allocato il sette per cento del Pil per il sostegno contro la crisi energetica; centinaia di miliardi per la nazionalizzazione di società energetiche colpite dalla crisi; e ora altri 100 per finanziare i margini dei contratti futures usati dalle società elettriche. E, in generale, i governi europei preferiscono usare la finanza pubblica per sussidiare il costo dell’energia ai cittadini e alle imprese, sussidiando così indirettamente l’uso delle fonti fossili, invece che per incentivare gli investimenti nelle rinnovabili.

Il contagio del debito

A monte si sta delineando un problema più grave: l’esperimento della mutualizzazione del debito per finanziare un piano comunitario di interventi, come è stato fatto col Covid, rischia di restare un unicum. La principale ratio per emettere debito garantito dall’Ue è abbatterne il costo, sfruttando il rating AAA ottenuto grazie alla garanzia comune. Ma, oggi, un titolo decennale Ue emesso per la pandemia (per esempio, il titolo 1%, 6/7/2032) rende il 2,85 per cento: più del 2,25 e 2,52 del decennale tedesco e olandese (con lo stesso rating AAA), ma anche di quello francese (2,72), belga (2,82) e irlandese (2,70) con rating AA.

È come se la presenza di stati con alto debito come l’Italia avesse “contaminato” la percezione del rischio della Ue: un’arma formidabile nelle mani di chi vuole bloccare ogni futura emissione di eurobond.

Comunque, un piano unico europeo per la transizione ambientale non c’è e ogni paese va per la propria strada. Un esempio significativo sono le iniziative sui gasdotti.

Progetti verdi?

La Spagna, ricca di LNG voleva costruirne uno per portarlo in Germania, ma la Francia si è opposta al passaggio; così si pensa di trasformarlo in un progetto per portare idrogeno verde spagnolo in Francia, che essendo “verde” potrebbe essere in parte finanziato con soldi europei.

Al progetto si oppone Iberdrola, il principale produttore spagnolo di rinnovabili, che ritiene poco economico produrre idrogeno con le rinnovabili per poi trasportarlo lontano (con un costo infrastrutturale esorbitante) e distribuirlo capillarmente: molto più logico usare l’idrogeno solo per le industrie energivore, producendolo vicino ai siti industriali.

Quesiti in parte validi anche per l’accordo che governo, Eni e Snam hanno firmato per il gas algerino. A prescindere che di “verde” c’è ben poco, perché si sostituisce il gas russo con quello algerino, l’unica informazione economica rilevante nei comunicati è che Eni (di stato) ha venduto a Saipem (di stato) una quota del gasdotto: non si capisce se si intenda costruirne uno nuovo o potenziare l’esistente, chi lo finanzi, con quale redditività attesa, e soprattutto se la citazione nel comunicato al trasporto dell’idrogeno (verde, grigio, blu?) sia solo green washing o se veramente si intenda produrre idrogeno in Algeria per poi trasportarlo in Italia, per farne che cosa, e a quali costi.

Questi esempi confermano che non c’è un piano europeo, e che in Italia il piano lo fanno le aziende pubbliche, con il governo al traino. Quanto al rischio geopolitico di dipendere sempre più dalla Cina, evidentemente la lezione russa non è servita.

Le scelte della Fed

Un altro enigma: l’economia americana sta frenando, l’indicatore del settore manifatturiero e dei servizi segna recessione, gli utili attesi sono in ribasso, le grandi società hanno avviato licenziamenti di massa, il settore immobiliare è in picchiata, la crescita monetaria a dicembre era negativa, l’inflazione ha superato il picco ed è in discesa con il deflatore dei consumi nel Pil del quarto trimestre sceso al 3,9 per cento, per la prima volta inferiore al tasso della Fed.

Alla luce di questi dati, si stima che mercoledì prossimo la banca centrale limiti l’aumento del tasso di riferimento allo 0,25. Perché allora si teme che la Fed reiteri la propria retorica anti-inflazionista, insistendo nell’aumento dei tassi col rischio di una recessione? La risposta a questo enigma sta nel mercato del lavoro. I licenziamenti, per ora, hanno riguardato le grandi aziende, ma non il settore dei servizi, come dimostrano le richieste dei sussidi e il tasso di disoccupazione, che rimangono ai minimi storici, con la dinamica dei salari che non accenna a rallentare, specie nei settori non esposti alla concorrenza internazionale.

Un indicatore che la Fed ha esplicitamente dichiarato di monitorare: la crescita salariale alimenterebbe la domanda di consumo, che a sua volta spinge i prezzi al rialzo.

Diverse analisi dimostrano però che la bassa disoccupazione, e quindi la dinamica dei salari, è dovuta alla demografia che vede un forte aumento dell’età media (quindi dei pensionati) e il crollo dell’immigrazione, che riducono l’offerta di lavoro. Recenti studi hanno poi dimostrato come l’invecchiamento della popolazione e la riduzione di quella attiva nel mercato del lavoro costituisca un elemento strutturale di inflazione (i pensionati domandano più di quanto producono). Se quindi la Fed insistesse nell’obiettivo del due per cento senza tener conto dei cambiamenti demografici, rischierebbe di causare un’inutile recessione.

La retorica della Bce

Un enigma analogo riguarda la Bce. Un’analisi di Gavekal stima che l’impatto diretto del caro energia sull’indice dei prezzi si azzeri per marzo. E poiché l’Europa è un’economia di trasformazione, anche l’indice core (esclude energia e alimentari) incorpora indirettamente l’aumento dei prezzi di energia ed elettricità e dovrebbe rallentare la crescita.

La fiducia dei consumatori è ai minimi, anche se gli indicatori dell’attività economica mostrano resilienza. Né ci sono segni di forti spinte salariali. Perché allora, in tema di tassi, la retorica della Bce è anche più aggressiva della Fed? Una spiegazione è certamente il tentativo di rifarsi una credibilità, dopo non aver previsto lo scoppio dell’inflazione, provocato dalla sua stessa politica. Un’altra plausibile era la necessità di arrestare la caduta dell’euro visto che l’inflazione europea è prevalentemente importata e il prezzo delle materie prime espresso in dollari: ma poiché l’obiettivo del tasso di cambio è espressamente vietato, si è usata, con successo, la retorica sui tassi: da settembre l’euro si è infatti apprezzato del 12 per cento sul dollaro. Ma se la Bce mantenesse la stessa retorica anche alla riunione di settima prossima, e alle parole seguissero i rialzi da 0,5 e la riduzione dei titoli in portafoglio a prescindere dalla dinamica dell’economia, il rischio recessione sarebbe realistico anche da noi.

A settimana prossima per la risposta, si spera, di questi due ultimi enigmi.

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