La corte di Cassazione ha depositato, a inizio settembre, le motivazioni della sentenza con le quali ha rigettato il ricorso di Benedetto e Nunzia Graviano, imparentati con i fratelli stragisti, Giuseppe e Filippo, contro il sequestro di atti e documenti nella loro disponibilità. L’avvocato Mario Murano annuncia a Domani che presenterà ricorso alla corte europea dei diritti dell’uomo contro questa decisione. 

Tutto ruota attorno ai soldi che un familiare dei mafiosi avrebbe dato a Silvio Berlusconi all’inizio della sua avventura imprenditoriale. Proprio Berlusconi era indagato fino alla sua morte per concorso in strage insieme al fidato sodale, Marcello Dell’Utri, ex senatore forzista e ora unico indagato nell’indagine dell’antimafia fiorentina.

Il procedimento inizia nell’ottobre 2021 quando la procura toscana, pm Luca Tescaroli e Luca Turco, disponeva la perquisizione personale e il sequestro di documenti utili alle indagini nella disponibilità di Benedetto e Nunzia Graviano, entrambi non indagati. L’avvocato Mario Murano otteneva l’annullamento del provvedimento in corte di Cassazione che, con motivazioni depositate nell’aprile 2022, l’illegittimità del decreto di sequestro perché mancante del «nesso di pertinenza tra i reati per cui si procede, il presunto finanziamento documentato dalla scrittura privata e il sequestro di documenti e dati informatici rispetto a terzi».

La suprema corte, in quell’occasione, annullava con rinvio rimandando gli atti al tribunale del Riesame che, dopo il deposito di informative e annotazioni da parte della procura, accoglieva i ricorsi della procura e confermava il sequestro. Ora arriva l’ultimo atto della Cassazione che respinge definitivamente le doglianze dei parenti degli stragisti.

Con quali motivazioni ritengono validi i decreti adottati? «Si tratta di decreti disposti per l’indicata necessità di riscontrare le dichiarazioni, rese alla procura della repubblica, da Giuseppe Graviano, in relazione al possesso, all’attualità, in capo a soggetti a lui vicini, di documenti al fine di riscontrare la sussistenza di rapporti finanziari descritti dallo stesso Giuseppe Graviano che costituirebbero l’antefatto rispetto alla strategia che portò all’esecuzione delle stragi negli anni 1993-1994», si legge. 

Accordi e incontri con Berlusconi

Per giustificare le perquisizioni viene citata l’annotazione di servizio del 14 ottobre 2021, parte integrante dei decreti, nella quale si sottolinea l’importanza di riscontrare le parole di Giuseppe Graviano, pronunciate anche in sede processuale, «relative ai rapporti tra gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, ndr), con i parenti del predetto e altri componenti della famiglia Graviano, compresi i parenti del cugino Salvatore, deceduto, cui Giuseppe Graviano attribuisce, espressamente, il compito di custodire una lettera che avrebbe sancito, secondo le sue affermazioni, l’accordo intervenuto con suo nonno materno, Filippo Quartararo, portatore di venti miliardi di lire, somma raccolta a Palermo attraverso una compagine di persone siciliane e destinata all’imprenditore milanese (Berlusconi, ndr)». 

Anche nell’interrogatorio del 21 novembre 2020 è stato affrontato il tema delle partecipazioni nelle aziende di Berlusconi da parte del nonno dello stragista. «Le partecipazioni avevano avuto origine quando era ancora in vita il nonno di Graviano e che, a suo dire, dovevano essere intorno al 20 per cento delle somme investite nelle attività imprenditoriali di Berlusconi», si legge nella sentenza. 

Nella sentenza della prima sezione viene ricostruito il presunto accordo che sarebbe stato formalizzato per iscritto e che avrebbe previsto, a fronte della somma erogata dalla cordata siciliana mafiosa, la restituzione da parte di Berlusconi della cifra con elevati tassi d’interesse. In tutto i capitali ammonterebbe a venti miliardi di lire. Nella sentenza si ricostruiscono gli incontri che ci sarebbero stati tra Giuseppe Graviano e Berlusconi presso l’hotel Quark a Milano in presenza della carta scritta riportante l’accordo, ma anche nel 1993 con la fissazione di uno successivo nel 1994. La cassazione non entra nel merito del titolo di reato, ma si limita a evidenziare l’assenza di vizi di forma nell’ordinanza impugnata. 

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