«Tel chi el Zamora». Comincia così il romanzo di Roberto Perrone che racconta di un ragioniere che prende ripetizioni per diventare portiere. Un po’ per amore, un po’ per orgoglio. Ora Zamora è diventato un film, l’esordio alla regia di Neri Marcorè.

Aggiungendosi alla fortunata vita cinematografica dei portieri, ruolo perfetto per il cinema, perché hanno sempre «cabeza en alto y corazón destrozado» come disse René Higuita, la cui avventurosa vita tra i pali e fuori si è appena trasformata in un documentario: El camino del Escorpión, scritto e diretto da Luis Ara.

Confine sul confine

Higuita è un confine sul confine della linea di porta, uno che non sapeva stare fermo ad aspettare gli eventi, diventando l’evento.

È considerato il padre dei portieri di oggi che non possono toccare con le mani la palla retropassata, ma devono “arrangiarsi” con i piedi. Prima di Higuita i portieri costretti a giocare con i piedi erano perlopiù una specie a disagio, dopo sono stati costretti ad evolversi, prendendo ripetizioni come Zamora di Perrone. In porta si finiva per vocazione o per costrizione, il portiere era fenomeno o avanzo, qualche volta scarto. L’estraneo.
Come l’americano Robert Hatch interpretato da Sylvester Stallone in
Fuga per la vittoria, e per uno scherzo del destino era estraneo anche il portiere degli Usa a Italia90 – il mondiale della consacrazione di Higuita – Tony Meola, italiano di Avellino con area di rigore nel Jersey. Era estraneo anche Bert Trautmann, paracadutista della Luftwaffe raccontato da Marcus H. Rosenmüller in The Keeper, che divenne portiere in un campo di prigionia nel Lancashire, poi finendo al Manchester City.
Come era straniero e assassino Joseph Bloch, personaggio inventato dal premio Nobel Peter Handke e divenuto un film di Wim Wenders:
Prima del calcio di rigore, matrice di ogni ragionamento sui tiri dal dischetto con colonna sonora di Francesco De Gregori e La leva calcistica della classe ’68.
Anche se l’ossessione di Robert Hatch/Sylvester Stallone in
Fuga per la vittoria è un’altra, e per metà film pone la questione a Michael Caine/John Colby: «Where do I stand for a corner kick? / Dove mi metto sul calcio d’angolo?».
Higuita non avrebbe mai chiesto dove mettersi, in un eventuale film potrebbe rispondere: «Io e l’azione coincidiamo sempre». Tanto che potremmo ipotizzare due modi di stare in porta per le due Americhe, quella del nord di Hatch e quella del sud di Higuita, e chiamare la “cosa”: “I giocatori della porta accanto”.

Estraneo rispetto alla squadra

Se analizziamo i due portieri, quello inventato da John Huston e dai suoi sceneggiatori (Evan Jones, Yabo Yablonsky) e quello partorito dal realismo magico di Medellín, ci accorgiamo che si toccano in alcuni punti ma poi si allontanano e disegnano le due Americhe, la porta accanto diventa una sliding door. Hatch è un soldato canadese integrato nell’esercito americano, che tenta continuamente di evadere dai campi di prigione, ma questa volta, su decisione del comando alleato, avrà un compito: contattare la resistenza francese per organizzare l’evasione della squadra di prigionieri che giocherà contro la squadra nazista.

Hatch non ha famiglia, in porta ci arriva come unica occasione per accedere alle docce da dove fuggire, ma Caine/Colby scopre che ha talento tra i pali: più istinto che esperienza, più caos che ordine, più paura che certezze, e alla fine prende un calcio in bocca, para un rigore e poi riesce a scappare.

Spavaldo, anche se non è ancora lo Stallone/Rambo, non spara, ma parla tanto, mentre para. Ha qualcosa di Rocky, una passione tra bicipiti e mani, capaci di tenerci la palla, l’attenzione dello spettatore e i guantoni.
Huston lo sceglie perché è davvero estraneo rispetto al resto della squadra, tutti veri calciatori (ci sono Pelé, Ardíles e Bobby Moore, campioni del mondo), e per un paradosso mette in porta un italo-americano (vero) in una partita di finzione girata nel 1981: quando il calcio negli Stati Uniti non era che una nicchia, nemmeno Pelé e Chinaglia con i Cosmos cambiarono le cose.
E nove anni dopo gli Usa vanno al mondiale con Tony Meola in porta, cresciuto nella barberia del padre – Vince’s barber shop – a Rutherford, quattro passi dal Giant Stadium dove giocava Pelé.

Un libero

L’altro, il portiere vero, René Higuita nasce e cresce alla Comuna numero cinque, Castilla, Medellín: «donde muchos nacieron y pocos crecieron», dice nel documentario il portiere della nazionale colombiana, senza padre e con la madre che muore quando lui era ancora un niño. Povertà, pallone e nonni. Intorno c’è la narcorepubblica di Pablo Escobar che tutti hanno visto in Narcos, e che Higuita conoscerà nella campagna elettorale che porterà il narcotrafficante al Congresso. Se non si entra nell’ottica di realismo magico di Gabo Márquez non si può capire questa storia, dove ogni paradosso è l’appoggio per un altro paradosso.
Escobar è una maschera della Colombia e, al pari di Walt Disney negli Usa, costruì un mondo parallelo ma di terrore, con un metodo simile all’americano: entrando nell’immaginazione degli altri.
Costruì quartieri, ospedali e campi di calcio, il piano ne prevedeva uno per ogni quartiere povero, mescolando lo sporco della sua fortuna con la giustizia di dare ai poveri una speranza, fu una delle sue intuizioni migliori.
Higuita conobbe il sognatore e riconobbe il povero, per questo poi non rinnegò l’amicizia, al contrario dell’intera Colombia corrotta e connivente.
Ma Higuita era anche il portiere che lasciava i pali e dribblava, un selvaggio, che disobbediva alle “regole” e creava stupore, portando la gente negli stadi. Evasione y eversione.
Segnava su rigore e punizione, parava tanti rigori, uno al mondiale 1990 contro la Jugoslavia, e quattro nella finale di Coppa Libertadores, poi vinta dal suo Atlético Nacional, allenato dal grande Pacho Maturana, uno che capì prima di tutti che Higuita era un libero e che poteva giocare con quattro difensori liberando spazio.

Il sogno

Il resto è leggenda. Higuita è un mito adorato dai bambini sudamericani, e nel documentario sentiamo per la prima volta, Marcela, la bambina sequestrata e poi liberata con il suo intervento. Mediazione che lo portò in carcere (come Hatch) per quasi un anno; esercito e polizia pensavano di poter sapere da lui dove si nascondesse Escobar. Non lo sapeva, ma non disse nulla.
Fu assolto e rivinse anche il campionato colombiano, sempre con l’Atlético Nacional, la squadra nella quale sognava di giocare un ragazzino di una Comuna di Medellín che poi immaginò anche di diventare presidente della Colombia e prima aderì al nadaismo, Pablo Escobar.
I sogni di Higuita erano altrettanto magici ma senza violenza, lasciava la sua area di rigore per raggiungere l’altra, evitava i gol per segnarli, e in mezzo faceva sognare tutti. Il documentario di Luis Ara (è su Netflix) racconta l’odissea – tortoriana – di SantaHiguita, la sua unicità calcistica, il protettore delle uscite avventurose dei portieri di oggi che veglia sui dribbling da baratro e genera la volontà bambina di stupire senza preoccuparsi del dopo. Calciodadaismo.

Un altro modo di scappare. Hatch fugge col popolo francese, Higuita con quello colombiano. Staccandosi dalla porta. Il sogno di tutti i portieri.

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