Il prigioniero Luciano Spalletti, matricola 33-3NA, forse prossimo allenatore della Nazionale italiana, si porta sul braccio il nome di un amore – Napoli – che se non rischia di essere una camera a gas, come cantava Gianna Nannini, bordeggia quella di un tribunale. Siamo dentro una storia d’amore e di fantasmi, dove se mi lasci ti clausolo. Luciano Spalletti, come già altre volte, è rimasto prigioniero delle sue passioni calcistiche, che potremmo chiamare storie di panchina, quasi che allenare fosse alberonianamente un movimento a due, come lo erano le coppie in Innamoramento e amore. In principio fu prigioniero della Roma che a sua volta lo era di Francesco Totti, tanto da creare una confusione pasoliniana tra realtà e finzione, tra la rappresentazione della storia nella serie tv – Speravo de morì prima – e gli scontri della realtà di cui ne ha fatto le spese lo Spalletti di finzione, Gianmarco Tognazzi.

Poi lo fu dell’Inter, rimanendo fermo a coltivar campi, ma con l’orecchio e la rabbia di un vietcong. E, infine, arrivò il Napoli e soprattutto Aurelio De Laurentiis. Ma questa volta c’è la Nazionale e la crisi più profonda del calcio italiano. E il prigioniero Spalletti, forse per la prima volta, vuole davvero evadere. Non ha travestimenti, ma desideri. Anzi il desiderio: smettere d’essere l’autostoppista, il marginale, e arrivare in Nazionale per meriti di campo e non per parti politiche.

L’ostacolo

Ma proprio quello che sembrava il suo amore maggiore, tanto da tatuarselo sul braccio ed esibirlo, il Napoli e lo scudetto, sono il suo ostacolo, tanto da farlo apparire come un personaggio di Stephen King: il Paul Sheldon di Misery, con De Laurentiis nei panni di Annie Wilkes, e la clausola di non concorrenza a fare la parte del letto-prigione. Ora, anche chi non sa del libro né ha visto il film sa che una prigione d’amore o un risentimento amoroso per un tradimento (in questo caso non c’è un club concorrente ma una Nazionale che dovrebbe sempre essere una ragione superiore) creano situazioni spiacevoli. Tra l’altro il tatuaggio di Spalletti è un appunto sentimentale per una stagione che appare irripetibile e che chiamerebbe una straordinarietà conseguente, e l’esplicitazione caratteriale del tipo d’allenatore che andrebbe a ricoprire la carica di CT.

Prima ci andavano i prodotti interni della Federazione, una sorta di Frattocchie (scuola del PCI) calcistica, che non avevano tatuaggi ma direttamente la pelle federale. Poi arrivò Arrigo Sacchi che era la presa della Bastiglia, non aveva tatuaggi ma un vessillo milanista, una rivoluzione sul campo e il linguaggio del nuovo politico che avanzava: il berlusconismo, dal cui pressing sacchianamente l’Arrigo sapeva uscire. Gli altri, i successivi, ad eccezione di Cesare Maldini che incrociava Milan e FIGC, avevano tutti non il tatuaggio ma la biografia del club col quale avevano vinto o di cui ne avevano incarnato la politica. La vera anomalia fu Gian Piero Ventura: una sorta di Luigi Di Maio della Nazionale, come mettere Lino Banfi in un film di Sofia Coppola.

In questo orizzonte calcistico Roberto Mancini era davvero apparso come il Mario Draghi azzurro, aveva il credito internazionale, l’eloquenza e il distacco e portava anche il risarcimento storico per le mancanze in campo azzurro del fantasista, mancate convocazioni e schieramenti. Spalletti si trova ancora una volta a vagare per i campi battiateschi del Tennessee dove le clausole delaurentesche non si sciolgono come canti, ma richiedono molta pazienza, mediazioni e/o strafottenza e/o tre milioni per la libertà di Luciano Spalletti. Uomo complicato, toscanissimo, malapartiano, incline alla citazione e alla rivendicazione e alle pause celentanesche.

Lui chi è

Ossessivo in campo, tramaiolo, paziente col talento, capace di sperimentazioni producendo sempre un gran calcio – aggressivo ed esteticamente rilevante –, un monaco guerriero della panchina che si barrica nel campo di allenamento e ci rimane a prescindere delle stagioni e delle festività. Una gran memoria per i torti e le mancanze subite per le quali sembra avere un archivio andreottiano.

Tanto che non è difficile immaginare che se De Laurentiis dovesse perpetrare il torto, continuare l’azione, sarebbe capace di fare al suo tatuaggio quello che fece lo scrittore David Foster Wallace con uno che riguardava il suo amore: sul nome «Mary» – scritto dentro un cuore tatuato sul braccio – fece tirare una riga e aggiungere un asterisco sotto al cuore, e più sotto si era fatto tatuare un altro asterisco e il nome «Karen», trasformando il proprio braccio in una nota a piè di pagina in carne e ossa. Ecco, se De Laurentiis non lo vuole fare per amore della Nazionale, lo faccia almeno per il braccio del futuro CT.

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