Mercoledì la polizia di Grand Rapids, in Michigan, ha pubblicato alcuni video che riprendono l’uccisione, da parte di un poliziotto, del 26enne Patrick Lyoya. Il 4 aprile il giovane è stato fermato per un controllo, ne è seguito un alterco con l’agente che è sfociato, dopo un breve inseguimento, in uno scontro. Il poliziotto infine ha sparato alla testa di Lyoya, uccidendolo.

Naturalmente il caso evoca immediatamente quello di George Floyd e si ricollega alla lista troppo lunga di giovani afroamericani uccisi dalla brutalità di poliziotti bianchi, in un intreccio perverso di squilibri di potere e di razzismo ormai incorporato nella cultura della polizia. Una tragica storia che è stata raccontata per ciò che è.

Nell’articolo del New York Times che dà conto dell’accaduto alla seconda riga si specifica che l’agente (di cui non si sa il nome, in attesa della conclusione delle indagini) era bianco e la vittima nera, elementi che sono decisamente rilevanti per la ricostruzione e comprensione dei fatti.

La giustizia farà il suo corso, come si dice, ma intanto l’omicidio è stato correttamente inquadrato nel contesto delle brutalità a sfondo razziale della polizia americana. 

Nelle stesse ore in cui sono state mostrate le immagini scioccanti dell’omicidio in Michigan, a Brooklyn un uomo ha gettato alcuni ordigni fumogeni nel vagone della metropolitana e ha iniziato a sparare, ferendo in tutto 29 persone.

Dopo un giorno di fuga l’attentatore, Frank James, è stato arrestato e l’attacco, con ogni probabilità premeditato e pianificato nei dettagli, verrà trattato come un atto terroristico. La dinamica riporta alla mente la lista, anche questa troppo lunga, delle stragi dei suprematisti bianchi, da Oakland a El Paso e Charleston, per rimanere negli Stati Uniti, ma si dovrebbero citare almeno anche Christchurch, Utoya e Hanau. In questo caso, però, i fatti non quadrano con la narrazione.

Nell’articolo del New York Times che dà conto dell’arresto, l’etnia dell’attentatore non compare. Le immagini mostrano che James è – a quanto pare –  afroamericano, ma il quotidiano non lo dice, e non lo dicono alcuni fra i principali media americani.

Di James si raccontano età, precedenti penali, storia professionale, disturbi mentali e altri dettagli, ma non si dice mai che è nero, un elemento descrittivo non trascurabile per chi di mestiere intende raccontare i fatti.

Già si vedono agitarsi sullo sfondo gli spettri della falsa equivalenza morale e l’accusa di collaborazionismo con Fox News, ma dovrebbe essere lecito chiedersi: in che modo l’omissione di un dato che in altri contesti si giudica cruciale aiuta chi legge, guarda e ascolta a comprendere un evento? Perché non dire?

Nel tempo in cui il paradigma dell’affermazione razziale ha sostituito quello della coloroblindness e le grandi testate americane scrivono “Black” con la lettera maiuscola, specificare l’etnia di una persona dovrebbe essere la normalità, e non importa se il soggetto in questione è un pazzo omicida o un eroe nazionale. 

Con incredibili acrobazie sintattiche il New York Times evita anche di dedurre quali ragioni abbiano potuto armare la mano dell’attentatore, conclusioni a cui in altri casi arriva invece assai rapidamente. Il poliziotto è razzista, lo sparatore bianco è suprematista, il non meglio specificato Frank James faceva su YouTube generiche «tirate fanatiche legate a eventi correnti». 

Non si dice che i suoi violenti e sconclusionati sproloqui erano legati al vocabolario dell’estremismo nero, che faceva proclami razzisti contro bianchi, asiatici e ispanici, che diffondeva meme con la scritta «o Gesù nero, per favore uccidi tutti i bianchi» e altre cose del genere. Parlava anche dei suoi disturbi mentali, e dagli indizi fin qui raccolti è certamente un dato importante in questa storia.

Ma non lo era forse anche per altri attentatori e terroristi bianchi per cui la nebbia della psiche si sovrapponeva tragicamente a forme di estremismo razzista?

Quale sia la ragione per cui nel racconto dei grandi giornali americani l’identità etnica di James e i suoi scomposti proclami sulla supremazia nera siano taciuti o solo vagamente accennati non è immediatamente chiaro (ognuno può farsi l’idea che vuole), ma dovrebbe essere chiaro che la pratica non aiuta a capire come sono andate le cose.

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