C’è un testimone che è scappato a Barcellona, un altro che è fuggito a New York, una madre che costretta a vendere perfino le fedi del matrimonio, altri hanno dovuto cedere la propria casa, qualcuno è stato pestato a sangue, qualcuno ridotto sul lastrico.

Hanno tutti una cosa in comune: sono rimasti muti davanti ai giudici del tribunale di Roma che li ascoltavano come vittime del clan Casamonica. Sono stati sentiti, nell’ultimo anno e mezzo, durante il processo che si è celebrato nella capitale, istruito da due pubblici ministeri che conoscono le mafie, Giovanni Musarò, lo stesso che ha mandato alla sbarra i carnefici di Stefano Cucchi, e Stefano Luciani.

E sulle mafie si gioca la partita più importante. Il clan Casamonica è assimilabile a camorra, ‘ndrangheta, mafia, società foggiana o è un’altra cosa, robetta di Serie B, violenza cieca, criminalità comune?

La sentenza

Oggi il tribunale, il terzo collegio della decima sezione presieduto dalla giudice Antonella Capri, dovrà emettere la sentenza. Sul banco degli imputati ci sono 44 persone, non solo gli esponenti apicali della famiglia criminale accusati del reato di mafia (in 14), ma anche Cristiano Vitale, maresciallo della Guardia di finanza (spostato in un reparto non operativo) che risponde di favoreggiamento aggravato, imprenditori e uomini che si muovono lungo il confine tra il mondo di sotto, quello della criminalità e della violenza, e quello di sopra, quello degli affari, della vita “normale” di tutti i giorni.

Considerando il numero degli imputati e quello dei reati contestati è uno dei processi per associazione mafiosa più importanti mai celebrati a Roma.

Qualche giornale ha continuato a scrivere dei Casamonica associandoli a parole come folclore, credendoli innocenti dopo la sentenza della Cassazione che ha assolto per il reato di mafia Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Era un altro processo, un’altra storia. Anche se queste vicende di malavita si incrociano – agli atti ci sono anche evidenze emerse dal processo Mondo di mezzo – e trovano comune origine in quell’universo criminale conosciuto come “Banda della Magliana”.

Un processo unico

Questo dibattimento sui Casamonica, nonostante gli incroci, è un unicum. Si riempie di testimoni reticenti, di imprenditori fiaccati dalla paura anche se i malacarne sono collegati in videoconferenza, ristretti come Giuseppe Casamonica, detto Bitalo, al 41 bis.

Le intercettazioni, agli atti del processo, raccontano di vittime che sono disposte a pagare i Casamonica a vita «comprandosi la libertà», ma poi ci sono gli atti provenienti da altri procedimenti penali che dimostrano come i Casamonica siedano ai tavoli con altri clan, come accaduto a Ostia nel 2017, per firmare la pace dopo agguati e ferimenti, e siano in grado di trafficare tonnellate di cocaina con i cartelli messicani, tra le più potenti organizzazioni mafiose del mondo.

I Casamonica sono malavita di strada e criminalità di rango, un potere criminale incompreso e sottovalutato per decenni. Per anni, già nella generale sottovalutazione delle mafie a Roma, i Casamonica sono stati trattati criminalità minore, robaccia di Serie B, manovalanza violenta senza storia, senza strategia e, di conseguenza, senza, quasi, alcun interesse pubblico e, neanche, investigativo.

Ma anni di sottovalutazione hanno contribuito a far prosperare un impero. I fatti dicono che in quasi metà secolo, mentre i Casamonica diventavano giganti, quasi nessuno se ne curava. Le parole, sbagliate, che hanno riguardato i Casamonica sono quelle che gli stessi membri di questa famiglia adoperano per definirsi: “nomadi”, “zingari”, “zingaracci”.

C’è una singolare e anomala aderenza tra la vulgata popolare e la stratificazione del fenomeno anche in termini giudiziari e investigativi. Nel tempo sono stati ridotti a fenomeno da baraccone, violenti senza arte né parte, loschi figuri, vandali confinati nel loro ghetto di una borgata romana, diventata presto quartiere.

Smontare il falso mito

Il processo che oggi arriva a sentenza mette in discussione tutto questo partendo da dichiarazioni rivelatrici di un potere criminale duraturo e, per anni, inattaccabile e che si riferisce solo all’arcipelago Casamonica localizzato in vicolo di Porta Furba, sulla Tuscolana, quindici minuti di auto da piazza Venezia e dal centro della capitale.

La pubblica accusa ha chiesto per i Casamonica pene severissime, 30 anni per i capi del clan (630 anni in tutto di carcere per gli imputati), e lo ha fatto ripercorrendo mezzo secolo nel quale la famiglia ha costruito e goduto di un’ampia «aura di impunità permanente, che loro in qualche modo orgogliosamente rivendicano e che ne accresce la carica intimidatoria», hanno detto i pubblici ministeri nella requisitoria.

L’impunità passa di certo per un’assenza di cultura giuridica relativa ai fenomeni mafiosi che ha condizionato indagini e sentenze, per una volontà di negare in ogni modo la presenza delle organizzazioni criminali in città, ma anche, nel caso dei Casamonica, da specifiche caratteristiche del clan.

La lingua

La prima è la lingua. «L’ostacolo investigativo principale è stato, senza dubbio, l’utilizzo della lingua sinti che è mischiata al dialetto abruzzese e anche a parte di dialetto romano. L’ostacolo è stato quello di reperire una persona che riuscisse a comprendere questo tipo di lingua», dice il teste Saverio Loiacono, comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Frascati.

Interpreti che vengono pagati a giornata, che non hanno protezione e che, alla prima occasione utile, rifiutano l’incarico. Anche in questo procedimento penale è successo. I carabinieri hanno raccontato di un episodio accaduto a casa di un professionista, un episodio rimasto senza colpevoli, ma che ha avuto un solo effetto: quello di far allontanare l’interprete che non ha più lavorato all’inchiesta.

La lingua serve anche in carcere quando durante i colloqui il clan impartisce ordini. Le poche conversazioni in lingua sinti che sono state tradotte assumono una rilevante importanza. Stabiliscono il collegamento tra due gruppi criminali dei Casamonica e anche il possesso di armi.

«Quando vuoi. Che possa stare senza di te, domani, dopodomani, quando vuoi, pistola…io ho fucili a canne mozze, ricordalo io ho una scorpion», si dicono al telefono. L’impunità ha una conseguenza: l’omertà.

Se i boss vengono salvati dalla prescrizione, come è successo in passato a Giuseppe Casamonica, in un processo per estorsione (l’appello è durato 6 anni), i cittadini diventano sudditi e percepiscono i Casamonica come l’unico potere egemone sul territorio. E anche in questo processo l’omertà ha trionfato.

L’omertà

Ci sono venticinque persone, tra queste il noto conduttore radiofonico Marco Baldini, vittime di usura ed estorsione e nessuna di queste ha presentato denuncia. Neanche chi era stato massacrato di botte. Si tratta di F.S. che ha presentato denuncia solo perché convocato dal commissario.

Non aveva denunciato, ma non era andato neanche in ospedale per evitare un referto medico in grado di rivelare le violenze subite scegliendo così di curarsi a casa da solo. F.S. era stato letteralmente picchiato a sangue. «Infrazione di due costole, la rottura di un ponte dentale, un dente spezzato e danni all’udito, perché era stato colpito con calci in faccia quando era caduto in terra», si legge nel fascicolo giudiziario. Eppure ha preferito il silenzio. Perché? I pentiti lo spiegano bene.

I pentiti

Uno di loro si chiama Roberto Furuli, uomo di ’ndrangheta. È uscito dal programma di protezione riservato ai collaboratori di giustizia, ma quando è emersa pubblicamente l’importanza delle sue dichiarazioni nelle indagini sui Casamonica, è stato costretto a rientrarci e la richiesta è stata immediatamente accolta. La situazione per Furuli stava diventando pericolosa.

«Mi sono ritrovato una bottiglia di benzina davanti casa con un fazzoletto appoggiato sopra (…) quindici giorni dopo mi sono ritrovato una busta bianca, come delle lettere, però un poco più piccola, con un calibro 45 dentro. E lì sono andato nel panico. E ho avvisato chi di competenza e oggi mi trovo qui», racconta agli inquirenti.

La famiglia Furuli è legata alla più nota e storica cosca di ’ndrangheta Bellocco di Rosarno, Furuli è stato battezzato dal boss Umberto Bellocco, detto assu i mazzi. Un altro pentito è Massimiliano Fazzari, ’ndranghetista battezzato in culla, che ha vissuto fianco a fianco con i Casamonica.

Ha ricevuto la proposta di entrare nella famiglia criminale romana e gli è stato spiegato per fare cosa. «Mi ha detto (Salvatore Casamonica, ndr) che c’era da fare un poco tutto, mi ha detto sia droga che recuperare i soldi, anche da spaccare ossa, da sparare, quello che c’è da fare in mezzo alla strada, ecco. Loro si equiparano anche alla ’ndrangheta, si definivano così, un gruppo mafioso», dice Fazzari.

Una consapevolezza che viene confermata nelle intercettazioni. «C’avete il più grosso capitale d’oro che c’è a Roma», dice l’amico Vito Nicola Zaccaro e Guerino Casamonica, entrambi a processo. E lui risponde: «A Roma siamo i più forti». Potere e soldi, ma soprattutto un numero impressionante, se ne contano mille, di familiari, sodali e persone a disposizione. «Non ha capito. Siamo pitbull, rottweiler (…) siamo cento persone. Se c’è un problema...», dice Consiglio Casamonica, detto Simone.

La consapevolezza di dominare il territorio si è trasferita, negli anni, sulle vittime. Ci sono persone che per decenni sono rimaste invischiati nella rete del clan senza pensare minimamente di denunciare, ma piuttosto mettendo in discussione la propria libertà. «Non li puoi denunciare perché passi i guai. E non li puoi passare... guarda, mi fanno venire un’ansia. Sono quindici anni che c’ho paura di sta gente. Ma come fai a metterti a muso duro con sta gente? Ma mica siamo banditi io e te oh. Eh, Eh, noi c’abbiamo da perdere, c’abbiamo una famiglia, c’abbiamo madri, padri. Ti ci devi mettere d’accordo e basta», racconta una vittima a un amico.

Così decide di pagare a vita una quota mensile per «comprarsi la libertà». C’è chi viene ascoltato dalla polizia giudiziaria e non parla, ma poi, intercettato dagli inquirenti, spiega il suo silenzio. «Sono veramente degli animali che spaccano le persone, come sanno tutti, e sparano in testa veramente perché sono zingari, sono tanti, stanno dappertutto».

Alcune parti offese hanno preferito dichiarare il falso piuttosto che raccusare i Casamonica. Altre hanno ricevuto chiare intimidazioni. C.B. ha ricevuto una minaccia inequivocabile per le dichiarazioni rese durante il processo: ha trovato sotto la porta del suo negozio l’avviso di conclusione delle indagini preliminari del processo, quelle relative ai capi di imputazione in cui la vittima era indicata come parte offesa. La rete delle vittime dei Casamonica è larga: imprenditori, professionisti, uomini dello spettacolo, nessuno è escluso.

Le feste con i calciatori

Durante i 18 mesi di processo, i Casamonica sono intervenuti con dichiarazioni spontanee. Le ha rese Giuseppe Casamonica, detto Bitalo. La sua storia giudiziaria racconta di uno stato che ha ignorato il fenomeno per anni. Oggi è rinchiuso al 41 bis, accusato di associazione mafiosa, ma nel 2017 è stato liberato dal tribunale di sorveglianza e trattato alla stregua di un tossicodipendente.

Le sue dichiarazioni hanno ripercorso il suo lavoro in una società di vigilanza. Bitalo ha raccontato le feste alle quali avrebbe partecipato, feste organizzate per sportivi famosi, soggetti non coinvolti in nessun modo nel procedimento. Un racconto che chiarisce quanto i Casamonica abbiano avuto rapporti, contatti sia con il mondo di sotto e sia con quello di sopra.

«Io lavoravo in quel locale (Smart club) occupandomi della sicurezza, ero stato scelto dai gestori. Vucinic, all’epoca giocatore di serie A, festeggiò il suo compleanno con Totti, De Rossi e tutta la squadra della Roma. Spese 5.900 euro di champagne. Io conoscevo non solo Tamara Pisnoli all’epoca moglie di De Rossi, con la quale ho avuto un rapporto sentimentale nel 2008, ma poi non l’ho più vista perché sono stato arrestato. Avevo amicizia con altre ragazze, mogli dei calciatori, con una valletta dell’Eredità, amici maschi che sono nel mondo dello sport e dello spettacolo», ha detto in aula.

«A uno che gli contestano che è un boss meglio non dire che ha lavorato. In questo processo c’è troppo pregiudizio nei nostri confronti», ha aggiunto Bitalo. Per gli avvocati, i Casamonica sono criminali, ma non mafiosi. Per la difesa i collaboratori di giustizia non sarebbero attendibili e la procura, dopo “mafia capitale” derubricata a “mazzetta capitale”, avrebbe l’ossessione della mafia. Sulla definizione di mafia si gioca tutto anche per lo sviluppo e la celebrazione di altri processi.

La denuncia

Nel giorno della sentenza mancherà l’unica vittima che ha denunciato. «La mia storia la devi raccontare, io non ho niente contro i Casamonica, ma mi hanno rovinato la vita e io volevo la mia casa indietro», diceva.

Si chiamava Ernesto Sanità, il clan gli aveva tolto la casa per un presunto debito del figlio, il figlio Giovanni è morto anni fa in una misteriosa rissa. Sanità ha denunciato tutto alla polizia di stato, si è rivolto all’Ater, la società pubblica che gestisce le case popolari, perché sgomberassero i Casamonica. Li ha sfidati, ma è rimasto solo. Non voleva fare l’eroe, ma solo tornare ad abitare nella casa popolare di cui era legittimo assegnatario.

La sua denuncia è andata persa e anni dopo ha raccontato tutto ai carabinieri. Dopo un decennio e dopo la retata delle forze dell’ordine contro i suoi estorsori, è rientrato nella sua casa. Due anni prima di morire. Nella capitale di uno dei paesi del G8, un signore settantenne ha dormito sotto i ponti, abbandonato dallo stato, perché un clan disponeva delle vite delle persone, delle case, del loro presente e del loro futuro. E chi denunciava veniva ignorato. «Voglio morì, non ce la faccio più», diceva Sanità. Oggi sarebbe stato in aula ad ascoltare il verdetto della corte. Unico resistente nel processo dove ha vinto l’omertà.

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