Il processo per violenza sessuale contro Ciro Grillo, figlio di Beppe, e tre suoi amici – Vittorio Lauria, Edoardo Capitta e Francesco Corsiglia – che si sta svolgendo presso il tribunale di Tempio Pausania mostra perfettamente quale sia la cultura che ancora oggi in Italia prevale in tema di stupro.

Nelle ultime quattro udienze, gli avvocati che difendono i quattro giovani accusati e un membro della corte hanno posto a Silvia (nome di fantasia), la giovane donna che dice di avere subito la violenza, domande come queste: «Com’era vestita? Aveva bevuto alcol? Perché non ha reagito? Perché non ha urlato? Perché non ha usato i denti durante il rapporto orale?».

E Silvia ha dovuto rispondere a 1400 domande intime e dettagliate di questo tipo. Molte volte ha mormorato: «Non ricordo». L’avvocato Dario Romano, che insieme a Giulia Bongiorno la assiste, l’ha definito «un interrogatorio da Medioevo»; invece, il presidente del collegio giudicante, Marco Contu, e Antonella Cuccureddu, l’avvocata che difende uno dei ragazzi accusati e che quelle domande le ha poste, hanno ribadito che quelle domande sono giuste, legittime, e servono per accertare i fatti.

Non è vero. Tutte le ricerche di psicologia, neuroscienze e scienze sociali dimostrano che domande di quel tipo non servono per accertare i fatti ma solo per gettare una luce di discredito sulla vittima dello stupro, cosa che gli avvocati della difesa hanno tutto il diritto di fare.

Il freezing 

In un articolo precedente, abbiamo spiegato che nella maggior parte dei casi, quando inizia a subire un abuso sessuale una donna si immobilizza. Un comportamento che viene definito freezing, cioè “congelamento”, e che è una risposta al pericolo scatenata dai circuiti della paura del nostro cervello, e soprattutto da una struttura fondamentale di tali circuiti chiamata amigdala, ogni volta che noi, come ogni animale, siamo attaccati da un predatore.

Molte delle donne vittime di stupro raccontano: «Non sono riuscita a dire: no, fermati! Mi sono bloccata». Quando l’amigdala rileva la presenza di un pericolo, comanda al tronco celebrale di inibire ogni nostro movimento per prepararci meglio all’azione: fa entrare subito il nostro organismo in uno stato di vigilanza estrema – i nostri occhi si spalancano, le pupille si dilatano, l’udito diventa più acuto – così siamo in grado di scrutare attentamente se l’assalitore ci attacca o se abbiamo la possibilità di fuggire.

Il nostro corpo si prepara per un comportamento di risposta che viene definito “fight or flight”, ovvero “lotta o fuggi”, cioè l’amigdala ci dice «se puoi lotta, ma se vedi una via di fuga scappa».

Contemporaneamente, i nostri circuiti neuronali della paura sommergono con un’ondata di “neurotrasmettitori dello stress” la nostra corteccia prefrontale – la regione del cervello che ci permette di pensare in maniera razionale  – e la spengono.

Così, una donna che viene attaccata, travolta dalla paura, riesce solo a mettere in atto comportamenti di difesa che possono sembrare irrazionali, come dire all’assalitore: «Scusami, ora devo andare a casa», o «mettiti il preservativo»; e quasi mai gli dice: «No, non farlo» perché ha il terrore che questa risposta scateni ancora di più la sua furia.

Molto spesso, dopo questa prima reazione di paura una donna che sta subendo una violenza sessuale non lotta e non fugge, perché quando viene afferrata da un assalitore tutti i suoi muscoli si irrigidiscono, bloccati dal terrore, e lei cade in uno stato di immobilità che la rende incapace di muoversi, di parlare, e di urlare.

Se poi l’attacco dell’assalitore prosegue, in alcuni casi il cuore rallenta e la pressione sanguigna della vittima si abbassa così tanto che la donna entra in uno stato di torpore simile alla sonnolenza, i suoi muscoli da rigidi che erano si afflosciano fino a farla sembrare una “bambola di pezza”, e talvolta può perdere persino conoscenza.

L’azione sull’ippocampo 

E cosa accade quando la vittima dell’aggressione ha bevuto alcol? L’alcol è la droga dello stupro numero uno. Le ricerche dimostrano che nell’80 per cento dei casi i violentatori commettono uno stupro su donne che sono momentaneamente incapaci di intendere e di volere perché hanno assunto droghe, quasi sempre alcol.

L’alcol agisce a più livelli. A basse dosi, l’alcol rallenta l’attività dei nostri lobi prefrontali – quelli che ci fanno mantenere un atteggiamento razionale e composto – e perciò ha un effetto euforizzante e favorisce la socialità.

Una donna che ha bevuto mostra un comportamento più aperto e disinibito con gli altri, ma questo non significa che con ciò voglia dire che vuole avere rapporti. A livelli più elevati l’alcol inibisce sia l’attività della nostra corteccia cerebrale (responsabile delle nostre scelte razionali) sia quella dei nostri centri sottocorticali (responsabili dei nostri comportamenti istintivi).

Una donna che ha bevuto molto alcol non è lucida, è incapace di reagire, e spesso più o meno totalmente incosciente. Infine, già a basse quantità l’alcol inibisce il nostro ippocampo, la struttura del nostro cervello fondamentale per il funzionamento della nostra memoria e che è responsabile sia della codificazione sia del recupero dei nostri ricordi.

In altre parole, l’ippocampo serve sia a formare la memoria della scena che ci sta accadendo, sia a recuperare il ricordo di quella stessa scena, tempo dopo. Una donna che sta subendo una violenza sessuale già riesce a malapena a ricordare in dettaglio la scena perché il suo cervello è tutto concentrato su come reagire alla violenza, e se ha bevuto la sua capacità di codificare la memoria di una scena si annulla, ma se non forma un ricordo di quell’evento, poi – ovviamente – non riuscirà a ricordare nulla.

Pretendere che una donna – come Silvia – che sostiene di avere bevuto e di avere subito una violenza sia in grado di rispondere in maniera sensata a ripetute domande su cosa le è accaduto è non solo vano, ma anche anti-scientifico e crudele.

La questione fondamentale 

Infine, l’alcol inibisce la corteccia cerebrale prefrontale, che è responsabile delle nostre scelte razionali, e quindi una donna che ha bevuto alcol non è in nessun modo capace di esprimere un suo consenso lucido ad un atto sessuale.

Perché la questione fondamentale in ogni processo per violenza sessuale è questa: la vittima ha espresso o no il suo consenso? E per esprimere il suo consenso una donna deve avere detto “sì”, non basta che non abbia mai esplicitamente detto “no”.

In altri paesi, commettere un abuso sessuale su una donna che avendo assunto alcol o droghe non è capace di esprimere un consenso viene considerato una aggravante, invece in Italia pare che non sia così.

Qui, gli avvocati difensori dei quattro ragazzi e certi media, con le loro domande e il loro racconto pieno di insinuazioni, vogliono dirci che Silvia era psicologicamente fragile, quella sera aveva bevuto, insomma era una che ci stava e che se l’è cercata. Che poi una ragazza ha tutto il diritto di bere per divertirsi proprio perché attraversa un periodo di fragilità – l’alcol è la droga euforizzante e antidepressiva più a buon mercato e universalmente diffusa – senza che con ciò voglia dire che è disposta ad avere rapporti con qualcuno.

La colpa dello stupro è sempre e solo di chi commette la violenza su una persona che in quel momento non è nemmeno capace di esprimere un consenso.

I tratti in comune

Invece di concentrarci sulla personalità delle donne vittime di stupro, sarebbe opportuno indagare quella di chi commette le violenze sessuali.

Perché molte ricerche dimostrano che i violentatori possiedono quasi sempre alcuni tratti in comune: sono maschi che esibiscono una estrema rabbia verso le donne e le considerano oggetti da conquistare; che mostrano un desiderio di dominare la donna e considerano normale la violenza in una relazione; che hanno atteggiamenti iper-mascolini; che seguono rigidi stereotipi sessuali e credono in miti da cultura dello stupro, come: «Se ti dice no, vuole dire sì».

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