Se fosse davvero la Sirena di cui tutti scrivono: ora avrebbe la pressione bassa, gli incubi da sveglia e la normale inquietudine da mamma apprensiva sarebbe triplicata. Ma Napoli è sempre doppia, pronta a duplicarsi e dividersi, un enzima sfuggente e inquieto come il matematico Renato Caccioppoli. Per quanto anche i napoletani puntino a darne una immagine unica, non è così. Giuseppe Marotta, scrittore, padre narrativo di Luciano De Crescenzo, diceva «a Napoli ogni idea è una persona».

E così, davanti al rosario di scosse che da più di un mese investe la città, scuotendola e costringendola a fare i conti – parziali, sempre parziali – con la propria natura, partendo dai Campi Flegrei, che prima di bussare forte erano uno stato d’animo, abbiamo tante Napoli: pronta, rassegnata, in fuga, indifferente, scientifica, magica, il catalogo le contiene tutte, ognuna con la sua soluzione e tutte unite dall’Attesa della scossa.

Come se fosse uno dei tanti eventi che coinvolge la città: dalle partite del Napoli alla Camorra passando per l’orgoglio di essere al centro del dibattito, non c’è mai la tregua. Che è forse il vero grande timore di Napoli e dei napoletani, che non ci siano più eventi, che la città si normalizzi, che si presenti lo stallo; non a caso davanti ad alcune normalizzazioni berlinesi che hanno riguardato soprattutto la Napoli artistica c’era persino chi era preoccupato.

La normalizzazione

La vera grande scossa sarebbe la normalizzazione di tutto. Invece no, non accade. Va così da secoli. E prima di Antonio Ghirelli e della sua “Napoli sbagliata”, riassunse tutto l’intuizione di Cesare Zavattini con il film Il giudizio universale (1961, di Vittorio De Sica): in quale altra città poteva essere accettata una voce che arriva dall'alto dei cieli e annuncia: «Alle 18 comincia il Giudizio Universale»? Napoli, ovvio.

Quella voce, come tutto, si è moltiplicata: è stata “pezzottata” – falsificata –, parodiata, accresciuta, fino a diventare una delle tante grida nella vita dei napoletani. Si è persa nell’ammuina. Tante paure, nessuna paura. La voce che annuncia il pericolo è continua, e sempre incinta. Ieri per la violenza metropolitana e la morte di Giovanbattista Cutolo, giovane musicista, ucciso per mano di un sedicenne; l’altro ieri per il rogo della Venere degli stracci di Pistoletto, e via così.

Poi sono arrivate le scosse e la preoccupazione è diventata più seria, si è abbassato il tono mentre si alzava il livello della popolazione coinvolta, e col calare della sera tutto il casino è diventato silenzio a braccetto con un atteggiamento spaventato e sobrio fino all’alba. Ma senza farne un dramma.

Napoli è un iceberg – non nel senso di freddezza – c’è sempre una parte non vista, e la più importante è quella sotterranea, è un’altra città, con altri linguaggi e traffici, un po’ la mostrarono i film Operazione San Gennaro (1966) di Dino Risi e Mi manda Picone (1983) di Nanni Loy, ora quella che viene mostrata è quella di sopra tra fiction e amiche geniali, ma quella che fa il gioco è la Napoli di sotto, e di nascosto – in quella di sopra – c’è solo il volto del cantante Liberato. Poi, c’è il Vesuvio, che è stato brandizzato e ridotto in cartolina.

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Tutto il pericolo viene esorcizzato nelle continue immagini, anche il Vesuvio è stato pezzottato – cominciò Andy Warhol a rappresentare quella paura o era evento? – sta al centro di tutto dalle tazze ai cartoni delle pizze, dalle insegne alle maglie della squadra di Aurelio De Laurentiis, per essere dimenticato più in fretta. Perché Napoli è cannibale, mangia sé stessa, si digerisce e rigenera. Ma per mangiarsi prima deve rendersi appetibile. Quindi immagine, distruzione dell’immagine, dibattito, creazione di una nuova immagine e via così. In un processo continuo.

A Napoli: Hegel, Nietzsche, Gadamer, Croce, Hösle, Spalletti, Troisi, Maradona, Sorrentino, Elena Ferrante tutto viene falsificato, con un intento economico prima, ma forse anche di più dopo per un intento di condivisione. Pezzotto dunque sono.

E quindi struttura, sovrastruttura; tesi, antitesi, sintesi; paradigma, comunità, secolarizzazione – in un processo contrario a quello dell’apparizione dei mobili Ikea – vengono smontate e ridotte in pezzotto, e poi a racconto di questo. L’eruzione del Vesuvio è probabile, ma nell’incertezza diventa una compagnia, una delle tante. La morte sta di fianco, le possibilità stanno ovunque. E questo atteggiamento colpì persino Giacomo Leopardi, un Icaro del pensiero.

Ora le scosse, l’attesa e il concretizzarsi delle stesse, diventano compagnia ed evento, e tra poco, saranno ridotte a pezzotto e dopo in fatto, quindi “cunto”, e si finirà per ironizzare con e delle persone che hanno le borse nei corridoi vicino alle uscite per scappare con il necessario; con e delle persone che potendo lasciano i Campi Flegrei; con e delle persone che restano e sopportano perché non possono fare altro; con e delle persone che restano e non sopportano ma se stanno qua e poi succede “il fatto” – a Napoli il male in ogni sua forma tende a coagularsi in cosa indistinta – avranno il diritto a una casa, a un indennizzo, a una possibilità.

Ed ecco che l’Attesa della scossa diventa anche Attesa per un’altra vita (come nel Mistero di Bellavista, quando il terremotato si rifugia con la famiglia nel bunker antiatomico «per noi la guerra è già scoppiata». Per la morte c’è sempre tempo. Intanto c’è il terremoto che è disagio, ma anche unicità e condivisione, perché sotto sotto nessuno pensa che sia serio.

La Grande Recita

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Ecco, Napoli Sirena, intesa come Partenope che canta e si prende i fastidi, in fondo in fondo pensa che nessuno possa volerle male veramente, ed è questo il maggior difetto dei napoletani che li porta a recitare il personaggio del napoletano – con poche eccezioni, tipo Troisi –, e questo sotto-pensiero che, per paradosso non tiene conto del sottosuolo, diventa il dare del tu alla Natura, pensando di poter scendere a patti – appattare – anche con Dio, attraverso San Gennaro.

C’è chi non si scompone davanti alle scosse perché – tanto – il sangue del santo si è sciolto, e non sono previste sciagure. In quale altro luogo del mondo si usa una teca col sangue come binocolo rivolto al futuro? Poi, le persone sanno dove radunarsi in caso di sciagura, sanno che cosa fare, secoli sul filo, da molto prima che Philippe Petit camminasse tra le Torri Gemelle, con lo stesso animo d’avventura, hanno abituato i napoletani alla precarietà della vita.

Lou Reed disse a Paul Auster – più o meno ironicamente – che non avrebbe mai potuto vivere in una città come Stoccolma, dove, a differenza della sua New York, c’è sempre qualcuno che cerca di ucciderti. È questo il sentimento dei napoletani. È questa la morte di fianco: o ridi e capisci che prima o poi ti toccherà, o piangi e poi ti toccherà ugualmente.

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