Un anno fa i carabinieri del Ros, coordinati dalla procura di Palermo, hanno assicurato alla giustizia l’ultimo stragista, l’ultimo corleonese, Matteo Messina Denaro. Una giornata storica per lo stato, attesa 30 anni, tre decenni di latitanza per il boss originario di Castelvetrano. A dodici mesi dalla cattura restano dubbi e domande sulla sua latitanza e sul suo arresto. Nella giustificata fanfara per celebrare il risultato raggiunto, è doveroso raccogliere i punti ancora non chiariti. 

Rosalia. L’operazione “Tramonto”, che porta all’arresto di Messina Denaro, nasce ufficialmente il 6 dicembre 2022, quando i Carabinieri entrano in casa della sorella Rosalia per piazzare delle nuove microspie e trovano, nella gamba di una sedia, un appunto arrotolato sulle condizioni mediche del boss latitante, malato di tumore. La curiosità è doppia: perché Rosalia, che è paranoica (sa di essere sotto controllo, evita di lasciare ogni traccia, fa in modo di mettere dei segnali per capire se qualcuno entra a casa sua le rare volte in cui esce) conserva questo pizzino? Tra l’altro è un documento inutile, perché datato (risale ad un anno prima), e non contiene informazioni operative, ma è un suo appunto veloce, con tutte le date degli interventi subiti dal fratello.

La polizia. La parte più delicata rimane il ruolo della polizia di Stato. L’arresto di Messina Denaro è una brillante operazione dei Ros. Tuttavia, la casa di Rosalia, la sorella, era sotto sorveglianza della polizia, che accetta la decisione della Procura di mandare dentro i Carabinieri per piazzare le nuove cimici. Perché non entrano anche i poliziotti? E perché, a un certo punto, scompaiono dalle operazioni? Questo alimenta ancora oggi tensioni e risentimenti. La polizia è stata più volte vicina a prendere Messina Denaro, ed è stata sorpassata all’ultima curva. 

La posta. La polizia, infatti, aveva intercettato delle lettere di Messina Denaro alla sorella. Lettere che arrivavano con il caro vecchio servizio postale (incredibile, no?). Se ne era dedotto che il boss era vivo, e che per trovarlo sarebbe stato necessario stringere il cerchio intorno a Rosalia Messina Denaro e magari piazzare cimici vicino le cassette della posta. La polizia intercetta le lettere, le apre, le richiude. Tutto questo avviene intorno a Maggio 2022. Nello stesso periodo un rocambolesco pizzino arriva a Rosalia, dal fratello. Il messaggio in codice è: «La ferrovia è saltata». Da quel momento le comunicazioni tra i due si interrompono. Cosa accade? C’è mai stata la possibilità di una costituzione del boss, caldeggiata da settori dello stato in passato?

Al contrario. Come sono stati catturati i grandi latitanti nella storia d’Italia? Lo spiega nel suo ultimo libro l’ex generale dei Ros, Mario Mori, che ha un ruolo anche nella storia della latitanza di Messina Denaro visto che gli ha dato la caccia. Spiega Mori: si controllano e si pedinano i soggetti vicini, si intercettano, si studiano i movimenti, per vedere anche come interagiscono tra loro. In questo modo si ottengono “vantaggi significativi”. L’arresto di Messina Denaro avviene esattamente all’opposto. Preso il boss, infatti, si scoprono solo dopo i suoi complici.

Al di sotto di ogni sospetto. Siamo stati trent’anni ad immaginare chissà quali complicità. Ed invece scopriamo che la rete di Matteo Messina Denaro era essenzialmente composta da persone al di sotto di ogni sospetto, per lo più orbitanti intorno ad una storica e radicata famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, la famiglia Bonafede, il cui patriarca, Leonardo, era addirittura colui che aveva garantito protezione durante la latitanza del padre di Matteo Messina Denaro, Francesco. Possibile che tutte queste persone godessero di una libertà assoluta, e fossero libere di interagire con il boss?

Un boss da salotto. Dalle carte che via via emergono, i pizzini trovati a casa, le lettere inviate alle sorelle, le indagini, emergono poi dei profili del boss molto diversi da quelli che abbiamo imparato a temere in questi anni. Si parla tanto della ricchezza di Messina Denaro, ma in pochi notano che nell’unico appunto ritrovato in cui si parla di soldi, il boss chiede alla sorella di attivarsi per andare da tale “Parmigiano” (sembra un grosso imprenditore della zona) a chiedere 40mila euro. In prestito. Il capo di Cosa nostra trapanese ha bisogno di avere soldi prestati. E siccome forse non li avrà, si raccomanda con la sorella: «Spiegagli che per lui non sono niente e che poi glieli ridiamo». Ci manca poco che lo troviamo vittima di usura. E il suo autista, Giovanni Luppino? Lui nega di conoscere Messina Denaro, ma viene smentito da un imprenditore oleario di Castelvetrano che racconta che qualche tempo prima Luppino era venuto nella sua azienda a chiedere il pizzo. I soldi servivano, diceva, per sostenere Matteo Messina Denaro. Com’è finita? Che l’imprenditore lo ha cacciato in malo modo e gli ha detto: se ti fai vedere di nuovo, chiamo i Carabinieri.

Trent’anni di mistero. Infine, il dubbio più grande. Ma dov’è stato Messina Denaro in questi trent’anni? Ma è davvero possibile che fosse sotto gli occhi di tutti, a fare la sua vita tranquilla, viaggiando, senza che nessuno tra le centinaia di persone che gli davano la caccia se ne accorgesse? Ricerche e sofisticatissimi sistemi di intercettazione, anni di indagini, che «non hanno impedito che il più ricercato latitante del mondo potesse condurre, in quegli stessi luoghi e per molti anni una 'normale' esistenza, senza neppure nascondersi troppo, ma anzi palesando a tutti il suo viso riconoscibile (per i tantissimi che lo avevano conosciuto personalmente), nonché a tanti persino la sua identità». Sono le parole del gip Alfredo Montalto, in una delle ordinanze di custodia cautelare dei complici di Messina Denaro. Sull’arresto di Messina Denaro sono usciti articoli, libri, memorie, reportage. Eppure le parole più sensate, sono le sue. Restano le domande, le risposte ancora no. 

© Riproduzione riservata