Il vino a merenda c’era, un tempo, anche per i bambini. Il pane raffermo veniva inzuppato nel vino rosso e nello zucchero. A volte si faceva bollire per far evaporare l’alcol, oppure si usava il vino novello. Era un’innocente trasgressione, giustificata dal credo di sempre, che “il vino fa buon sangue”.

E succedeva più o meno in tutta Italia. A Canelli, nella Langa astigiana, nel moscato si intingeva il ciuccio e sempre in Piemonte c’era l’aperitivo quando non esisteva ancora l’aperitivo: si chiamava merenda sinoira – prima di cena – e spezzava la routine dei contadini che accompagnavano acciughe, salame e formaggio con barbera o dolcetto.

Bruno Ceretto, fondatore dell’omonima cantina di Langa, ricorda quando nel 1961, nel centenario dell’unità d’Italia, fece fatica a vendere barolo alla proprietaria del ristorante Il Cambio di Torino. Alla fine i due trovarono un accordo: 12 bottiglie di dolcetto in regalo per l’acquisto di 12 etichette di barolo. Questo per dire, quale vino contasse di più all’epoca.

Agile, leggero, versatile

Il vino-merenda è invece oggi un concetto più traslato e ampio e che incrocia, nel vocabolario enologico, altre definizioni come vin de soif – in francese vino di sete, dissetante – e drinkable wine – dall’inglese vino facile da bere. È di certo una tendenza contemporanea che affonda tuttavia le radici in un fare contadino, in un’Italia del vino che era ancora lontana da pratiche agronomiche e di cantina tecnologicamente avanzate.

C’è anche uno spartiacque cronologico, lo scandalo del vino al metanolo che causò, nel paese, decine di morti. Dopo quel 17 marzo 1986 la sensibilità dell’opinione pubblica in fatto di sicurezza alimentare fece fare, al mondo del vino, una virata importante, cambiando anche l’approccio al consumo: ecco che il vino da alimento diventa un piacere edonistico.

Dopo decenni di vini-status symbol, di bottiglie letteralmente e metaforicamente pesanti, di gradi alcolici alti propinati come indici di qualità, si torna a etichette agili, leggere, spesso versatili. Termini che, se legati a un bicchiere di vino, possono suonare poco chiari. Proviamo quindi a contestualizzarne il significato.

Ne parliamo con Marilena Barbera, viticoltrice in Menfi, provincia di Agrigento, un passato di vini potenti e strutturati, in linea con quello che ci si aspetta dai vini siciliani. Poi si è messa in ascolto dei consumatori – soprattutto di quelli giovani e che parlano di vino sui social – e del suo gusto personale e ha alleggerito tutto: «Ho scelto la strada del vino spensierato», spiega la produttrice, «che non vuol dire banale o facile, ma libero dai condizionamenti dei giudizi, delle guide, di chi deve abbinarli ai piatti, di chi sceglie in base al costo o al prestigio, e l’ho liberato dall’ansia!

Dal punto di vista tecnico la differenza l’ha fatta la pratica della fermentazione spontanea (la fermentazione spontanea non prevede l’inoculo del lievito, ma avviene in modo naturale grazie a lieviti e batteri già presenti nell’aria, ndr) che ha dato al mio vino nuova energia e vitalità. Lo capisco anche dalle analisi che evidenziano la presenza di vitamine, ad esempio, come quelle del gruppo B. Per me è come un alimento, un cibo, qualcosa che nutre. Ecco dov’è per me la sua agilità».

Spensierati vini frizzanti

In termini di leggerezza, il vino deve vedersela con un concorrente sfrenato, che è quello delle bevande a basso tasso o zero-alcol. Un business in Europa arrivato a 7, 5 miliardi di euro – dati della società Aretè – e che fa da tempo proseliti in Australia e negli Stati Uniti. Un successo trainato dalle mode salutiste che poco hanno da spartire con gli alcolici.

Eppure, c’è un segmento di vini – che spesso intreccia il filone dei vini naturali – che asseconda, almeno nel percepito, una ricerca di maggiore salubrità e artigianalità. Guardando ancora al passato, viene in mente un altro termine francese, vin de travail, il vino da portarsi nei campi, quello poco alcolico, dal colore scarico, spesso un vino di ricaduta – perché il mosto fiore, la parte pregiata, veniva spesso venduto.

Anche qui potremmo usare gli stessi aggettivi utilizzati poco sopra, ma a cambiare sono gli strumenti e il fine, come spiega Andrea Picchioni, viticoltore a Canneto Pavese, in provincia di Pavia: «Oggi posso decidere in partenza il grado alcolemico, il colore e il corpo di un vino, senza rinunciare tuttavia all’identità varietale e territoriale delle mie vigne.

Consapevolezza e conoscenza scientifica hanno cambiato il modo di lavorare. Un vino agile e leggero sarà un vino comprensibile, che non affatica naso e palato. E poi c’è la versatilità che è un concetto che capisci a tavola, quando un vino sta bene un po’ con tutto accompagnando le pietanze senza sovrastarle».

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Il produttore dell’Oltrepò Pavese ricorda il “granà”, un vinello poco alcolico e poco colorato che i contadini ottenevano dal risciacquo delle bucce dell’uva torchiata. Oggi, dopo una giornata di lavoro, dice di preferire un bicchiere di Bonarda a uno di Buttafuoco (entrambi due vini Doc dell’Oltrepò, ndr): «Ho iniziato a fare vino», spiega Picchioni, «pensando soprattutto al loro invecchiamento.

Poi ho scoperto la piacevolezza dei vini frizzanti che non sono affatto vini di serie B. Sono anche la nostra storia, quella di chi fa il vino lungo il Po, delle vendemmie tardo autunnali, del freddo che teneva dormienti i vini e del loro risveglio in primavera con la ripartenza delle fermentazioni. I primi vini secchi e fermi arrivano da Piemonte e Toscana, terre di nobili, noi, gente comune, si beveva il vino che frizzava».

Togliere e non aggiungere

Altro modo di dire, parlando di questi vini, è richiamare un suono onomatopeico, il glu glu, ovvero sorsi che vanno giù in scioltezza. I vini glu glu sono quelli che ricorda anche un giovane Attilio Scienza, oggi tra i più famosi studiosi al mondo di viticoltura, quando nel suo Trentino accompagnava fette di salame a un bicchiere di Marzemino: «I vini della quotidianità, un tempo, erano tutti da uve autoctone, perché le varietà internazionali arriveranno con l’enologia moderna.

Così i vini dei Castelli Romani accompagnavano la porchetta, la Schiava lo speck in Alto Adige, i rosati pugliesi il pesce e le verdure, i Lambrusco i salumi. Ad accomunarli era spesso un basso grado alcolico, parametro che oggi è tornato in auge, non ritenendo più che una percentuale alta ne decida il valore. Anzi i più giovani bevitori guardano con sospetto i 14 gradi alcol riportati in etichetta».

Tenere basso il grado alcol nei vini, tuttavia, non è così semplice, soprattutto alla luce di temperature sempre più roventi. Il cambiamento climatico, che non va circoscritto al solo innalzamento delle temperature, è nemico dell’equilibrio nei vini, come lo sono le gelate o le piogge intense. Dinanzi a un’apparente disarmonia della natura è l’uomo che deve darsi da fare.

Da qui l’importanza delle conoscenze agronomiche ed enologiche. Ne è convinto Andrea Moser, enologo a servizio per molti anni della cantina sociale altoatesina di Caldaro e oggi consulente aziendale, con un progetto appena avviato, l’AMProject, con il quale si dedicherà ai temporary wines, vini prodotti in edizione limitata cambiando spesso regione, vitigno e anche vinificazione: «Un vino semplice da bere», spiega Moser, «non è un vino piccolo.

Ci vuole molta più sapienza nel togliere che nell’aggiungere perché esponi il prodotto a molti errori, ma avere tanta tecnica non vuol dire essere interventisti. Oggi l’agricoltore non può più improvvisare e per rispondere ai cambiamenti climatici in atto deve studiare il clima e avere ben chiari gli obiettivi enologici.

Poi, certo, andranno fatte anche delle scelte, come rinunciare a una tipologia di uva o preferirne un’altra, virare su stili diversi, ma la tecnica consente, ad esempio, di garantire l’acidità, di tenere a bada il grado zuccherino, di ottenere vini concentrati e pure bevibili. Deve esserci un disegno dietro a un vino, anche dietro a quello apparentemente più semplice».

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