La giustizia è il vero nervo scoperto del governo, intesa in tutte le sue accezioni: quella dei tribunali, quella delle riforme e quella degli organi istituzionali. L’ultimo pasticcio è stato combinato dal vicepresidente del Csm, il laico considerato in quota Lega ma in realtà nome su cui c’era la condivisione di tutti i partiti di maggioranza, Fabio Pinelli.

La sua maldestra sortita, che voleva enfatizzare i suoi risultati nell’abbattimento dell’arretrato e mettere in chiaro il proposito di rendere il Consiglio un organo di alta amministrazione assolutamente perimetrato rispetto alla politica anche nell’espressione dei pareri, è stata un boomerang disastroso. Attaccando il precedente Csm, la cui vicepresidenza era toccata al dem David Ermini, reo di aver «esercitato una impropria funzione politica», ha di fatto aperto un fronte con il Quirinale, che del Csm è presidente e collante tra la consiliatura in corso e quella conclusa nel 2022.

L’inciampo non è stato enfatizzato dal Colle e in serata anche Pinelli ha spiegato di essere stato frainteso, ma ha provocato la rivolta di tutti i consiglieri togati. Dalle sue parole hanno prima preso le distanze i consiglieri di Area, Unicost, Magistratura democratica, l’indipendente Roberto Fontana e anche – dato importante – Dario Scaletta di Magistratura indipendente.

A distanza di ventiquattro ore dai fatti, è arrivato anche il comunicato dei rimanenti sei componenti di Mi, la corrente conservatrice delle toghe che nell’attuale consiglio ha trovato un’asse con i sette laici di centrodestra: «Prendiamo atto delle opportune precisazioni» di Pinelli, «sulle questioni istituzionali occorre equilibrio e ponderazione, nei toni e nei contenuti», è la stilettata. «Esprimiamo il massimo rispetto e apprezzamento per il lavoro svolto in condizioni difficili da chi ci ha preceduto», è la conclusione. Una presa di distanze anche dell’area togata più in sintonia con la maggioranza, che segna la prima vera incrinatura di un’asse che fino ad oggi era risultata solida.

L’unica posizione dissonante è stata quella del togato indipendente Andrea Mirenda, che ha detto di «condividere pienamente» le parole di Pinelli «circa la natura non politica» del Csm, ma anche «il giudizio tutt'altro che positivo sulla precedente consiliatura» ma, ha aggiunto, «c’è ancora molta strada fa fare per affrancarsi dalle logiche correntizie». 

Le parole di Pinelli sono riuscite a compattare però per la prima volta tutte le correnti, anche quella che storicamente aderisce a una visione rigida nell’interpretazione delle competenze dell’organo. Col risultato, sebbene tutto teorico e contingente, di finire potenzialmente in minoranza con 19 togati su 33 membri a prendere posizione in modo critico nei suoi confronti. Curiosa eterogenesi dei fini, visto che l’intento di Pinelli sembrava proprio quello di tendere un ramo d’ulivo alla maggioranza, dicendo che «le leggi le fa la politica» e che il Csm doveva ritornare nel suo «perimetro». Invece, il risultato è stato aprire un nuovo fronte di imbarazzo per la maggioranza che lo ha scelto.

Le paure di Meloni

Meloni si sarebbe volentieri risparmiata questo ennesimo grattacapo in un settore che non le è mai stato congegnale. Nei lunghi anni di opposizione, infatti, era stata lei a chiedere le dimissioni dell’allora ministra del governo Renzi Josefa Idem per una vicenda di Ici non pagata, come «atto di responsabilità» e lo stesso aveva fatto anche con la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi, in quel caso per una inchiesta che riguardava il marito, parlando di «conflitto di interessi». Ora al governo, in Meloni ha preso il posto il garantismo nei confronti dei suoi, da Andrea Delmastro a Daniela Santanchè fino a Vittorio Sgarbi, e probabilmente quell’accusa di conflitto di interessi nei confronti di Guidi risuona ancora, pensando al caso delle indagini nei confronti di alcuni membri della famiglia Verdini, di cui fa parte la fidanzata dell’alleato Matteo Salvini.

Anche il Capitano, che fino a qualche anno fa suonava campanelli alla ricerca di presunti spacciatori e invocava pene esemplari gettando la chiave facendosi bastare i titoli di giornale, ora evoca riforme della giustizia nella direzione di tutelare gli indagati parlando di «fango mediatico-giudiziario».

Eppure, in più di un anno di governo, le riforme sulla giustizia hanno seguito un iter lento e accidentato: il primo vero provvedimento del ministro Carlo Nordio, approvato in consiglio dei ministri a giugno 2023, ha solo ora terminato il suo iter in commissione Giustizia al Senato. Del resto proprio Nordio, lui sì voce storica del garantismo e del liberalismo, è stato artefice di più di qualche imbarazzo per Meloni con le sue nette prese di posizione contro i pm e l’uso troppo pervasivo delle intercettazioni. Considerazioni perfettamente in linea con le posizioni di Forza Italia, più difficili invece da digerire per l’elettorato storico di Fratelli d’Italia.

Secondo fonti vicine alla premier, a palazzo Chigi il timore che nelle procure si stia muovendo qualcosa che potrebbe investire la cerchia ristretta della premier sarebbe forte. Del resto, un sentimento simile era stato evocato anche dal ministro Guido Crosetto con la frase sul fatto che «l’unico pericolo per il governo è l’opposizione giudiziaria».

In questo quadro, Fratelli d’Italia si è mossa in Vigilanza Rai per chiedere conto di quello che hanno definito il «metodo Report», che in due inchieste hanno sollevato ombre sui padri del presidente del Senato, Ignazio La Russa e della stessa Meloni. Nel caso della premier, l’inchiesta aveva tra le fonti anche la ricostruzione di un pentito giudicato inattendibile dai magistrati ma il conduttore Sigfrido Ranucci ha confermato che «le fonti sono attendibili». Tutto questo alimenta la sindrome da accerchiamento di Meloni, che continua a volare nei sondaggi e non ha competitor nè in casa nè nell’opposizione ma si sente vittima del sistema e non della qualità della classe dirigente di cui ha deciso di fidarsi.

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