I fatti della tanto discussa campagna del Ministero del Turismo, Open to meraviglia (protagonista la Venere del Botticelli: un po’ Barbie e un po’ “influencer digitale”), sono fin troppo noti, così come tanti altri dettagli alquanto discutibili.

Il nostro compito è qui di puntellare con precisione i pochi punti certi, dalla prospettiva del giurista, porre delle questioni e soprattutto utilizzare questo caso come un punto di partenza per impostare delle best practice/linee guida per il settore.

Oltre che, ovviamente, incidentalmente far cadere anche tutte le ipotesi “bizzarre” che un insieme infuriato di non giuristi, attivissimi sui social, hanno paventato in questi ultimi giorni: dalla multa per vilipendio al patrimonio artistico nazionale, a fantasiose class action che dovrebbero risarcire i (non meglio specificati) danni subiti da noi cittadini italiani a causa di questa campagna pubblicitaria.

Le considerazioni giuridiche che si possono fare nel caso di specie ruotano tutte intorno a questioni di gestione delle immagini delle opere dei musei cadute in pubblico dominio, e sulle contraddizioni, inevitabili a volte, di una materia in cui in Italia abbiamo gli articoli 107 e 108 del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio (Codice nel quale è stata assorbita anche la materia della Legge Ronchey, e che stabilisce come la riproduzione di beni culturali con scopo di lucro sia soggetta a concessione); ma anche l’Open Access, la Direttiva Europea in materia di copyright e la discussione che hanno prodotto riguardo alla libera circolazione delle immagini dei beni culturali; l’utilizzo libero (dal 2014) delle foto delle opere nei musei, scattate e usate per fini di studio, ricerca, o comunque altri fini non commerciali; e – sullo sfondo – il complesso rapporto tra pubblico e privato in tema di beni culturali ed i criteri di gestione del denaro pubblico.

Questioni, insomma, non di poco conto, anche pensando a quanto la società contemporanea sia bombardata in ogni istante da milioni di segni visivi di ogni genere, e al ruolo di questi segni visivi nella costruzione della nostra cultura contemporanea.

Scopo di lucro

Immaginiamo un paio di ipotesi, anche in base alla giurisprudenza in materia. Trattandosi, infatti, di una campagna ministeriale di promozione del “brand” Italia e di valorizzazione del patrimonio italiano, lo scopo di lucro sembrerebbe mancare, e nulla è dovuto quindi al museo che ha in custodia la Venere del Botticelli. Sarebbe stato più equo (oltre che più strategico), però, se agli Uffizi fosse stata data l’opportunità di condividere la loro opinione sulla campagna ministeriale, dato il loro ruolo fondamentale come custodi del bene in questione.

Un ruolo che viceversa viene valorizzato dal Tribunale di Venezia, in un recente caso dai contorni commerciali più evidenti, che ha dichiarato illecito l’utilizzo dell’Uomo Vitruviano da parte di un gruppo di società produttrici di giochi, senza l’autorizzazione dell’ente che ha in consegna il bene (le Gallerie dell’Accademia di Venezia).

Siamo, infatti, – pur nell’apparente diversità dei due casi (non commerciale quello della Venere, commerciale quello dell’Uomo di Vitruvio) - , in una vischiosa terra di confine.

A causa della sempre più marcata adesione a politiche di accesso aperto (cd. open access) da parte dei musei di tutto il mondo, anche in caso di usi commerciali delle riproduzioni dei beni culturali, il corrispettivo è infatti facoltativo, ed è la singola istituzione a decidere come applicarlo o meno (impostazione ribadita in alcuni parti delle attuali Linee Guida sul riuso delle immagini dei beni culturali del Piano nazionale di digitalizzazione, 2022-2026, nonostante sia stata riconfermata la presenza di un canone, pur con alcune limitazioni e eccezioni, aggiornate ai tempi). Anche perché, spesso, la riscossione del canone è antieconomica, specie per le istituzioni più piccole, che devono mantenere tutto un apparato per la riscossione del medesimo.

Lo stato può utilizzare le opere d’arte?

E qui compare la prima contraddizione, oltre che tutta la “scivolosità”, della materia. Lo Stato può utilizzare liberamente (anche in maniera kitsch) l’immagine della Venere per una campagna pubblicitaria, commissionata ad un soggetto privato utilizzando non poco denaro pubblico, e avente un indubbio impatto economico sul comparto del turismo (un caso limite tra uso commerciale e non commerciale).

Mentre un privato non può farlo se vi è il fine di lucro (anche se utilizzasse le immagini nel migliore e più sofisticato e virtuoso dei modi: per esempio creando borse fatte da artigiani italiani o mostrando le attività scultoree di Carrara, producendo così anche una positiva pubblicità indiretta all’opera d’arte e al museo in cui è collocata), se non previo consenso dell’istituzione che ha in consegna il bene e previo pagamento di una apposita concessione.

Una materia poi che, nella sua ambiguità, ha creato non pochi precedenti di annose cause tra Stato e privati: come quella tra un’agenzia di viaggi che utilizzava senza consenso l’immagine del David di Michelangelo e la Galleria dell’Accademia di Firenze, cui afferisce la statua; o il caso degli Uffizi contro Gaultier, sempre per un uso non autorizzato della Venere di Botticelli; o quello delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, opposte ad una società straniera produttrice di giochi su cui era riprodotta a fine di lucro l’immagine dell’opera dell’Uomo vitruviano, e altre.

Non vogliamo qui tirare in ballo la questione del c.d. open access, e prendere posizione favorevole o contraria rispetto a chi sostiene che nella società odierna il pagamento del canone per il riuso a fini commerciali delle immagini dei beni culturali andrebbe totalmente abolito. No, il nostro ragionamento è più complesso e soprattutto non è questo il tema cruciale della questione della campagna Open to meraviglia, perlomeno volendo porsi in un’ottica costruttiva.

Mancano linee guida

La vera questione, infatti è un’altra: non è forse arrivato il momento di stabilire, soprattutto nei casi, come questo della Venere della campagna Open to meraviglia, alcune linee guida (o best practice), che riescano ad ancorare l’uso di (tanto) denaro pubblico a delle metodologie di lavoro serie e condivise, magari mutuandole da esempi stranieri (visto che nonostante tutti i proclami di uso della lingua italiana, di valorizzazione del Made in Italy, etc., anche questo caso dimostra che qui in Italia siamo sempre al “tu vuoi fa’ l’americano?”: e quindi facciamolo bene, o perlomeno proviamoci, come in questa sede dove il dialogo, non a caso, è tra due giuriste, una italiana, e una italo-americana).

Nonostante l’esempio americano non sia in grado di darci delle risposte definitive o un quadro unanimemente condiviso di quali utilizzi dei beni culturali italiani possano essere considerati “appropriati”, rispetto all’importanza del nostro patrimonio culturale, è comunque un punto di partenza, un benchmark per impostare qualche ragionamento.

Sicuramente, infatti, per ragioni di diversità di culture, opinioni e tradizioni presenti nel variegato contesto americano, il pubblico dominio negli Stati Uniti è vasto e non regolato, lasciando per la maggior parte liberi e senza autorizzazione utilizzi che in Italia sarebbero dichiarati anche, in certi contesti, contro il decoro (come l’immagine del David con un fucile dell’azienda Armalite).

La Statua della Libertà, per esempio, un’opera che, come importanza storica nei rispettivi contesti, possiamo paragonare alla Venere di Botticelli, è adottata come parte di marchi di aziende negli Stati Uniti, senza pagamento di alcuna concessione allo Stato e senza nessuna richiesta di autorizzazione.

Le considerazioni alla base di tale politica sono semplici: l’immagine fedele della Statua, da sola, non può funzionare come un marchio o un’indicazione di origine, non ha caratteri quindi particolarmente distintivi, perché, possiamo dire, è ormai iconica sia nel contesto americano che in quello globale.

Infatti, le linee guida e le idee per delle nuove best practice potrebbero essere tratte proprio dagli standard americani all’interno del diritto dei marchi e del copyright: in particolare, da quel corpus di regole usato per paragonare marchi e opere, ossia likelihood of confusion e substantial similarity, e le nozioni che permettono l’utilizzo di un marchio o di un’opera d’arte immateriale, il cosiddetto fair use o utilizzo giusto ed equo.

I casi Usa

Ad esempio, due casi che sono attualmente davanti alla Corte Suprema negli Stati Uniti, il caso Jack Daniels contro VIP e il caso Warhol contro Goldsmith, stanno, rispettivamente, indagando se un utilizzo umoristico dei marchi Jack Daniels da parte di un'altra azienda sia un caso di likelihood of confusion o se sia in parte lecito; e se un’opera creata da Warhol, ma tratta da una fotografia di Prince, sia un fair use.

In casi come questi, gli strumenti usati negli Stati Uniti - tra privati - per argomentare utilizzi leciti e illeciti della proprietà industriale e intellettuale, possono forse fornire strumenti allo Stato italiano, che, in certi casi, sembrerebbe voler agire come fosse il proprietario di una sorta di marchio Venere, che indichi l’Italia come origine; e, in altri casi, viceversa, come il proprietario della Venere intesa sia come bene culturale che opera d’arte (quindi, in quest’ultimo caso, come un copyright holder dal punto di vista americano), soggetta pertanto a riproduzioni e ad utilizzi autorizzati.

Siamo su un crinale sottile, come si diceva poc’anzi, non essendo chiaro come lo Stato italiano intenda distinguere tra l’utilizzo di un’immagine di un bene culturale che nello stesso momento in cui valorizza il bene abbia, incidentalmente, anche impatti commerciali, ed un utilizzo puramente commerciale.

Una differenza importante nel nostro ragionamento: perché abbiamo già sottolineato come anche iniziative senza scopo di lucro, come Open to meraviglia, possano generare soldi e apparire, a prima vista, non troppo dissimili da altre iniziative commerciali del settore delle industrie creative.

Mentre, al contrario, iniziative dal carattere sicuramente commerciale, come la presentazione del David all’interno della campagna Brioni o l’editoriale di Chiara Ferragni in Vogue Hong Kong possono, al pari di Open to meraviglia, valorizzare il patrimonio culturale.

Best practice di stato

Appare sempre più chiara l’importanza di cominciare a ragionare in termini di best practice dello Stato, da applicarsi sia ad attività private che pubbliche; così come l’importanza di arrivare a decisioni condivise con il pubblico, rendendo note le valutazioni fatte in tema di attività di valorizzazione o di commercio.

Inoltre, è importante riconoscere come anche gli utilizzi apparentemente più commerciali possano veicolare messaggi inerenti ai beni culturali italiani, spostando in avanti il dialogo culturale nella nostra società contemporanea. Non ultima, viene qui in considerazione un’altra nozione che spesso sembra limitare l’utilizzo delle immagini dei beni culturali, soprattutto se si tratta di icone: il decoro.

Essendo quest’ultima una categoria spesso utilizzata dallo Stato come strumento e ragione per tutelare l’autenticità e l’integrità di un bene culturale, anche tramite il controllo della sua immagine, che succede quando la nozione di decoro viene meno come nel caso della campagna pubblicitaria Open to meraviglia che tanto orrore e perplessità ha suscitato da parte del pubblico?

Trovando quindi un nuovo equilibrio nei consueti rapporti: se il pubblico pone a gran voce domande sull’effetto di una riproduzione effettuato dallo Stato, chiedendo se sia un utilizzo appropriato, non dovrebbe essere questo un giusto controllo sullo Stato?

Analisi di mercato

Concludendo: crediamo quindi che il caso della Venere23 sia un caso paradigmatico da cui ripartire per mettere a punto degli standard condivisi per il settore, cominciando a costruire confini e best practice omogenee, entro le quali analizzare e valutare gli utilizzi delle immagini di beni culturali custoditi in musei pubblici e altri enti pubblici.

Per esempio, perché non richiedere analisi serie di mercato con cui a fronte dell’utilizzo di 9 milioni di euro, venga ben spiegato al pubblico quale target di pubblico e turisti (che non siano già ampiamente fidelizzati) si è voluto raggiungere, con che concezione del turismo per l’Italia (che di questi tempi dovrebbe essere perlomeno “sostenibile”), e con che attese di risultati (economici) tra 6 mesi o un anno (il cd. ROI, return on investment)?

Perché non rendere pubbliche le valutazioni fatte per le diverse tariffe stabilite per le riproduzioni e magari agevolare, in tale ambito, artigiani e piccole e medie imprese, che pure fanno parte, in un certo qual senso, del patrimonio culturale italiano? E perché non applicare questo ragionamento internamente ai diversi Dipartimenti dello Stato, favorendo la trasparenza dei ragionamenti e delle conversazioni tra i diversi Ministeri e Musei, così da rendere anche il pubblico più consapevole delle politiche create dal Ministero del Turismo per attrarre visitatori in Italia?

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