Negli anni Settanta e Ottanta la procura di Roma si portava addosso il soprannome di “porto delle nebbie”. Certo l’edificio è un labirinto cupo di scale interne e corridoi bui, pavimentati di sampietrini che – nell’opera del progettista – dovevano rappresentare che la giustizia è vicina alle strade dove passeggiano i cittadini. Il soprannome, però, è rimasto incollato al palazzone di piazzale Clodio per lustri, perché le inchieste ai poteri economici e politici della Capitale si perdevano dietro una coltre di nebbia, per non uscirne più. Insabbiati o contesi con altri tribunali, con allungamento matematico dei tempi per poi non arrivare a nulla: dai due “scandali dei petroli” ai fondi neri dell’Iri, fino a scampoli delle indagini che poi produssero il terremoto di Tangentopoli ma che a Roma non diedero grandi frutti. «A Milano certe cose non succedono», era il ritornello dei magistrati all’epoca, che però si sente pronunciare di nuovo oggi nell’anonimato delle conversazioni con le toghe milanesi. Poi, però, recentemente anche la procura meneghina ha visto incollarsi addosso il nomignolo scomodo di “palazzo dei veleni”, dopo gli scontri interni alla procura intorno al caso Eni Nigeria e alla presunta Loggia Ungheria inventata da Piero Amara.

Il manuale Cencelli

A Roma si è insediato ormai da quasi due anni il nuovo procuratore capo, Francesco Lo Voi. Ex vertice della procura di Palermo e un passaggio anche da consigliere al Csm, il suo nome è stato sostenuto dalle correnti conservatrici dopo un lungo e pasticciato iter di nomina.

La procura di Roma,come è noto, è stata l’oggetto della contesa all’Hotel Champagne tra consiglieri togati e politici e ha prodotto l’emersione di quello che è finito sotto l’etichetta di scandalo Palamara: l’accordo e la spartizione correntizia degli incarichi ai vertici degli uffici più importanti del paese. Non solo. Prima dell’anno di interregno di Michele Prestipino – prima reggente, poi guida formale con nomina del Csm infine annullata dai giudici amministrativi – infatti, la procura di Roma era guidata con indiscutibile carisma da Giuseppe Pignatone, e il suo addio per raggiunta età pensionabile non è stato indolore. Pignatone, infatti, ha lasciato dietro di sé quella che è stata la più deflagrante indagine per mafia che la Capitale avesse mai visto: “Mondo di mezzo” o “Mafia Capitale” sono stati i nomi mediatici che ha assunto. Il disegno sottostante le ipotesi di accusa, se confermate, sarebbe stato eclatante: non più solo le mafie storiche di Sicilia, Calabria e Campania, anche in Lazio avrebbe avuto una sua mafia autoctona, impastata con la politica e in contatto con le cosche del sud Italia.

Il terremoto Mafia Capitale

Il processo, iniziato nel 2015 e finito nel 2020 con la sentenza di Cassazione, però, ha smontato quello che è poi è stato definito un teorema: quelle di Roma, guidate da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, erano due associazioni per delinquere sì, ma “semplici”.

Il gip archivia subito le posizioni di 113 indagati, l’aggravante mafiosa cade nella sentenza di primo grado, viene ripristinata in appello e infine definitivamente cancellata dalla sentenza di Cassazione.

Così si è concluso il maggior processo romano degli ultimi vent’anni e che ha prodotto un terremoto politico a livello comunale, lambendo politici di tutti gli schieramenti. Molte le condanne eccellenti definitive (anche quella dell’ex sindaco Gianni Alemanno per traffico di influenze), ma l’impatto della cancellazione dell’aggravante mafiosa – che era il cuore dell’inchiesta – è stato pesante.

Cosa succede oggi

La caduta parziale dell’impianto accusatorio di Mafia Capitale, il successivo pensionamento di Pignatone, il terremoto di credibilità dell’intera categoria provocato dallo scandalo Palamara con conseguenti tentennamenti nella nomina del nuovo vertice, senza parlare di alcune assoluzioni a sorpresa, hanno inevitabilmente indebolito l’azione degli uffici. Con il risultato che il mantra di gran parte dei sostituti è diventato quello della «prudenza». Complicato, in questo clima, indagare sulla politica e sulla corruzione dei colletti bianchi – la piaga principale della città eterna – senza rischiare di incorrere in attacchi mediatici, oppure al costo di scontare il deficit di fiducia oggi diffuso nei confronti della magistratura.

In questa situazione ha assunto il mandato Lo Voi. Da quando si è insediato non si è avuta notizia di grandi indagini avviate o in corso. Anche le leggi nazionali sono cambiate, e la comunicazione con l’esterno è ridotta all’osso.

Gli uffici dei nove aggiunti funzionano come possono. Particolare spinta ha avuto l’ufficio che segue i crimini di genere grazie alla corsia preferenziale istituita con il Codice rosso. Tuttavia, la sensazione interna è quella di una battaglia impari. «Il traffico di stupefacenti se non è fuori controllo poco ci manca» e associazioni per delinquere «con uso del metodo mafioso» sono presenti, ma si muovono e si scontrano «in parità di posizione» e non con il consenso delle mafie storiche come in Sicilia, ha detto Lo Voi in audizione in commissione Antimafia. Ci sono i numeri: un totale di quasi 2.000 indagati noti nel periodo 1 luglio 2022 - 30 giugno 2023, con una attuale pendenza di 8.036 indagati nell’ambito di 461 procedimenti penali. La ragione della quasi impossibilità di contrasto è duplice: «L’offerta enorme risponde a una altrettanto enorme domanda» e le forze sono impari, perché «dall’organico mancano 22 dei 90 magistrati previsti. Per fare le udienze ho dovuto coinvolgere anche i componenti della Dda: non riuscivamo a coprire le udienze».

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